venerdì 25 marzo 2011

Le nannies senza «vie di d’uscita» del paese di Al Jazeera


 

donne o schiave ?


 
Fuggono dalle case dove padri e rampolli di norma ne abusano

L’emiro del Qatar, un Paese di 200 mila cittadini, è sempre di più influente nel mondo per una ragione insieme semplice e raffinata: è l’editore unico di Al Jazeera, la tivù che ispira molte delle rivolte democratiche nel mondo arabo. La sue moglie prediletta, la sceicca Mosa è bella, moderna, brava a esprimere le idee e le sfumature che piacciono in posti come Davos o in una serata di beneficienza nella City di Londra. Ma… c’è un ma. In Qatar migliaia di donne vivono sequestrate.

Se non ci credete, andate a vedere (se ve lo permettono) un posto accanto all’ambasciata delle Filippine che si presenta come «Philippine Overseas Labour Office». Asserragliate là dentro e in altri posti simili a Doha soggiornano centinaia di balie e domestiche in fuga. Sono le nannies filippine, etiopi o nepalesi fuggite dalle ville dei qatarini dove vengono regolarmente molestate e aggredite dai maschi di famiglia, padri e rampolli di casa.

La legge locale impedisce loro di uscire dal Qatar o di cercarsi un altro impiego senza il nulla osta del datore di lavoro del momento. Uno straniero è di fatto uno schiavo nelle mani di chi lo ha assunto. Una straniera lo è ancora di più. È per questo che certe ambasciate di Doha hanno allestito delle dépendances che sono di fatto campi di rifugiate illegali: là dentro vive un’umanità fuggita dalle ville, per questo minacciata d’arresto, arenata, ridotta in una zona grigia dove non resta più possibilità né di partire, né di restare.

L’India, l’Indonesia, il Pakistan e il Bangladesh sono arrivati al punto di proibire alle loro cittadine donne di recarsi in Qatar.

Le vaste riserve di gas naturale, i miliardi dell’emiro e il fascino cosmopolita di sua moglie hanno comprato al piccolo regno la rispettabilità internazionale. Al Jazeera gli ha dato soft power perché parla agli arabi di libertà e ispira il loro coraggio nelle rivolte. E l’editore di Al Jazeera che fa?
Corriere.it

Tutto il Sudest Asiatico e non solo è terra di emigrazione, dalle regioni più povere alle nazioni del primo mondo, al Medio Oriente. Questo che segue è il resoconto di Walden Bello, deputato filippino del gruppo Akbayan, facente parte della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Lavoro domestico in Arabia Saudita. La storia è simile a quella di tantissime altre donne indonesiane, thailandesi, Singalesi, Indiane costrette in Arabia Saudita a subire la violenza e l'abuso dei loro datori di lavoro.
Le prede della Giungla sessuale saudita di Walden Bello (Global Focus)
Lui era un ufficiale della Marina Reale Saudita presso la base strategica di Jubail nel Golfo Persico. Lei era una madre sola di Mindanao, nelle Filippine, che al pari di tanti altri vedeva l'impiego in Arabia Saudita come una strada per uscire dalla povertà. Quando lui andò a prenderla presso l'aeroporto internazionale Dammam a giugno, lei non sapeva affatto di stare per entrare, più che in un capitolo più chiaro della sua vita, nella stanza degli orrori da cui si sarebbe liberata soltanto dopo sei lunghi mesi.
La storia delle pene raccontate da Lorena (un nome di fantasia) era una delle tante storie di stupro e di abusi sessuali che raccontavano le lavoratrici domestiche ai membri del gruppo di indagine del Committee on Overseas Workers’ Affairs (COWA, comitato sui problemi degli emigrati) della Camera dei Deputati delle Filippine, di cui ero membro. L'alta incidenza dello stupro e delle violenze sessuali, riscontrate sulle donne che incontravamo nei rifugi gestiti dal governo per le lavoratrici domestiche fuggite e salvate nelle principali città saudite di Jeddah, Riyadh e Al Khobar, molto probabilmente riflettono una forte tendenza tra i lavoratori domestici filippini. “Lo stupro è comune” diceva Fatimah che era stata stuprata in gruppo nell'aprile 2009 da sei giovani sauditi. “La sola differenza è che siamo potuti scappare e raccontare la nostra storia mentre loro sono ancora imprigionate nelle case.”
L'esperienza tragica delle donne filippine è molto simile a quelle delle donne indiane, indonesiane, singalesi e di altre nazioni che esportano lavoratrici domestiche in Arabia Saudita. Ma mentre altri governi hanno cominciato seriamente a fare dei passi per la protezione dei propri cittadini, Manila è stata paralizzata dall'imbarazzo politico tra la pressione crescente della società civile di fare qualcosa per lo scandaloso trattamento dei lavoratori domestici in Arabia Saudita e il desiderio immenso di tanti poveri filippini di lavorare all'estero per sfuggire alla povertà a casa.
Stupro: lo spettro sempre presente
Le condizioni di lavoro di molte domestiche, che includono da 18 a 22 ore al giorno e botte da orbi, non possono che essere descritte come schiavitù virtuale. La schiavitù fu abolita da un decreto reale del 1962, ma le usanze sono dure da vincere. Le lavoratrici domestiche continuano ad essere trattate da schiave nelle case reali ed aristocratiche, e questo comportamento si riproduce attraverso quegli strati sociali nella gerarchia. In modo chiaro i termini della “descrizione del lavoro” di uno schiavo domestico in Arabia Saudita è di essere costretti a soddisfare gli appetiti sessuali del capo della casa. Questa è un rapporto in cui tante altre donne, non volendo, sono entrate quando le loro agenzie di lavoro le hanno mandate in Arabia Saudita.
Lo stupro comunque non ha luogo solo nella casa. Con la rigida segregazione dei giovani sauditi dalle ragazze saudite, le domestiche filippine, che di solito vanno in giro col capo e il volto scoperto, hanno una buona probabilità di divenire preda sessuale se fanno l'errore di farsi vedere in pubblico sole, benché essere in compagnia di un'amica non fosse stato un impedimento ai ragazzi stupratori di rapire Fatimah. E la minaccia non arriva soltanto dalla gioventù predatoria saudita ma anche dagli altri emigranti, celibi o sposati, a cui è impedito, con una rigida segregazione sessuale
imposta attraverso l'onnipresente Polizia Religiosa, il normale incontro con le donne durante il loro soggiorno in Arabia Saudita.

La Storia di Lorena
Lorena è una ventenne agile e bella, qualità che la designano come principale preda sessuale nella giungla saudita. E infatti il suo calvario cominciò quando giunsero alla residenza del suo datore di lavoro dall'aeroporto. “Mi obbligò a baciarlo” ricordò Lorena. La paura la assalì e lo spinse via.
Ma lui non fu dissuaso. “Una settimana dopo il mio arrivo, mi stuprò per la prima volta. Lo fece quando non la moglie non era in casa. Lo fece dopo che mi comandò di massaggiarlo ed io rifiutai dicendo che non era ciò per cui ero stata assunta. Poi a luglio mi violentò altre due volte. Dovetti sopportarlo per che avevo così paura di scappare. Non conoscevo nessuno.”
Mentre un giorno attendeva il suo datore di lavoro e la moglie in un grande magazzino, Lorena incontrò alcune infermiere filippine a cui implorò aiuto. Nell'ascoltare la sua storia, le diedero una scheda telefonica e si offrirono di comprarle un po' di traffico voce.
Ma la tortura in casa continuava. Era picchiata se parlava arabo dal momento che la moglie del datore di lavoro sosteneva che era stata assunta per parlare inglese. Le era dato un pezzo di pane da mangiare a pranzo ed era costretta a mangiare gli avanzi dei piatti di famiglia. Fu data in prestito alla madre della moglie del datore di lavoro per pulirle la casa, e la ricompensa che ricevette per quel lavoro fu di essere violentata dal fratello della moglie; i legami di sangue chiaramente danno il diritto allo stupro della servitù dei parenti. Durante quel mese di ottobre fu violentata, per la quarta volta, dal suo datore di lavoro.
Non doveva solo sottostare all'aggressione sessuale ma anche alla crudeltà pura. Una volta, mentre faceva i lavori di pulizia, cadde e si tagliò. Col sangue che le usciva dalla ferita, supplicò alla padrona di casa di portarla in ospedale. La donna rifiutò e, quando Lorena le chiese di poter chiamare la madre nelle Filippine, la donna rispose ancora di no dicendole che era troppo costoso. In quel momento arrivò il padrone di casa che, invece di portarla all'ospedale, disse: “Puoi pure morire.” Lorena dovette mendarsi la ferita con i propri vestiti e prendere le pillole che aveva portato con sé dalla Filippine.

Stupro nel mezzo del salvataggio
Totalmente disperata, Lorena riuscì a mettersi in contatto con il personale dell'Ufficio del Lavoro degli Emigrati Filippini (POLO) a Al Khobar. Si fecero degli accordi per andarla a prelevare per il 30 dicembre. Quella mattina giunse presso la residenza il gruppo formato dal POLO e dalla Polizia. Lorena fece loro dei segnali convulsi dalla finestra del secondo piano e disse loro che voleva saltare, ma il gruppo le suggerì di non farlo per non rompersi una gamba. Fu una decisione pagata caramente dalla donna, poiché il datore di lavoro la violentò di nuovo, per la quinta volta, con la polizia appena fuori della residenza. Quando si trascinò dalla moglie dell'uomo supplicando di tenerla lontano da suo marito, la donna la picchiò e la definì una menzogna. “Gridavo e gridavo, la polizia poteva ascoltarmi ma non fecero nulla.”
Quando l'uomo capì che stava per essere arrestato, supplicò Lorena di non dire nulla alla Polizia poiché avrebbe perso il lavoro e si offrì di pagarle il viaggio di ritorno a casa. “Dissi che non lo avrei denunciato e che avrei detto che era un buon uomo, solo così mi lasciarono andare” disse Lorena. Quando fu salvata qualche momento dopo, Lorena raccontò il suo calvario al gruppo del POLO e alla polizia e l'uomo fu arrestato.
Appena uscita dalla condizione di prigionia, Lorena era determinata ad ottenere giustizia. Comunque le procedure fortemente burocratiche rallentarono le visite mediche che servivano ad ottenere le tracce di sperma subito dopo il suo salvataggio. Quando alla fine fu eseguita, le fu data una pillola contraccettiva d'emergenza, un'indicazione, secondo il funzionario del POLO che aveva guidato il gruppo del salvataggio, che era stato trovato dello sperma in lei e sul suo corpo. Inoltre la visita rivelò contusioni su tutto il corpo e morsi sulle labbra.
Il processo è ancora in corso e il datore di lavoro, identificato come Lt. Commander Majid Al-Juma-in è ancora in carcere nella stazione di Polizia a Damman. Lorena aveva paura che le prove potessero essere manomesse. “Queste persone sono potenti” diceva “Hanno molti soldi. Io sono solo una cameriera. Dicevano che avrebbero potuto mettermi in prigione.” La paura era palpabile. Il suo più grande desiderio era di essere rimpatriata ma sapeva che doveva restare finché non fosse incriminato e condannato a morte.

La società Saudita: una pentola a pressione del sesso.
Secondo un funzionario dell'Ambasciata, questa storia mostra che stupro e crudeltà non è solo cosa delle famiglie saudite dei bassi ceti sociali. “Questo è un ufficiale della Marina, uno che ha una formazione educativa.”
Le ragioni dell'endemicità dello stupro e della violenza sessuale hanno provocato animate discussioni tra quelli che ascoltarono la storia di Lorena. Secondo un membro del Parlamento nel gruppo, la feroce segregazione sessuale deve creare una forte repressione sessuale tanto che, non appena si presenta l'occasione di una soddisfazione sessuale, questa repressione esplode. Un altro sostiene che l'abuso sessuale delle domestiche è una estensione della forte subordinazione ai maschi e la repressione istituzionalizzata delle donne saudite. Qualunque siano le cause la società saudita è pregna di una violenza sessuale latente, molto più della maggior parte delle altre società.

Offerta che decresce, domanda che cresce
Altri governi hanno cominciato a prendere decisioni forti per proteggere i propri cittadini in Saudi Arabia. Il governo indiano ha deciso per il divieto totale di impiego di donne oltre i 40 anni in Arabia Saudita. Dopo un caso molto noto di una domestica indonesiana che ha sofferto di emorragia interna e ossa rotte a causa dopo il feroce pestaggio da parte del suo datore di lavoro, che le premette sul capo un ferro caldo colpendola con le forbici, due stati indonesiani esportatori di manodopera, Nusa Tenggara occidentale e Giava Occidentale, hanno messo al bando lo scorso dicembre il reclutamento di lavoratori domestici per l'Arabia Saudita. In precedenza, ad Ottobre, il ministro del lavoro dello Sri Lanka rifiutò un accordo già firmato tra l'agenzia di reclutamento nazionale saudita e la federazione del lavoro dello Sri Lanka, affermando che i termini dell'accordo erano sfavorevoli ai domestici dello Sri Lanka e alla propria economia. Questo portò al blocco definitivo da parte saudita del reclutamento dallo Sri Lanka.
Questi passi di altri governi hanno portato ad una maggiore domanda di lavoratori domestici filippini. Mentre la politica informale del governo filippino è stata di rallentare il reclutamento di lavoro domestico verso l'Arabia Saudita, agenzie legali e illegali, legate agli interessi sauditi, hanno provato a tirarla su. La nuova amministrazione Aquino forse può raggiungere presto la decisione finale sul problema del reclutamento di manodopera per l'Arabia Saudita dal momento che la Legge Sui Lavoratori all'estero richiede che il ministero degli esteri filippino certifichi che una nazione, in cui si devono impiegare dei lavoratori, sta facendo passi per proteggere i diritti dei lavoratori. Con il suo orrendo curriculum e la resistenza ad espandere la copertura del codice del lavoro ai lavoratori domestici, non ci sono possibilità che l'Arabia Saudita possa avere una certificazione positiva.

Vite distrutte
Per i membri della missione parlamentare filippina in Arabia Saudita, rimasti silenziosi per lo sconvolgimento a causa della valanga di crudeltà, di repressione domestica e di stupri, c'è il consenso di fare qualunque sforzo per impedire alle donne filippine di andare in Arabia Saudita per impedire il ripetersi di queste tragedie come quelle viste di Lorena o Fatimah. Per le tante che hanno subito già lo stupro e il degrado sessuale, comunque, il tentativo di impedire l'impiego in Arabia Saudita di altre donne giunge troppo tardi. Lorena forse otterrà la condanna del Comandante Majiid ma questo non le permetterà di tornare ad essere come prima. Come ha scritto Fatimah su un foglietto che ha passato al gruppo di lavoro, benché chi l'aveva torturata sia stato condannato a sette anni di prigione e 2500 frustate ciascuno, “non esiste una pena equivalente per quello che hanno fatto. Hanno distrutto la mia vita e il mio futuro.”

 Annamaria... a dopo

1 commento:

  1. C'è da rimanere esterrefatti. Che schifo, signori. Ma questi organismi internazionali che fanno? Denunce se ne fanno sempre di più ma non succede nulla. Vergogna, vergogna.

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