venerdì 11 marzo 2016

PERCHE' NELLE VECCHIE FOTO NON SI SORRIDE?









Mark Twain 

Mark Twain testimonia che l'istinto a sorridere c'era. Pero' non immaginava che molti piu' avanti avrebbero fatto  autoscatti con le labbra a culo di gallina cioè con le labbra protese disperatamente in avanti. 


Antonio Razzi- autoscatto bocca a culo di gallina



E chissa' se tra qualche decennio Il Post fara' un articolo sul "Perche' nelle vecchie foto tutti facevano V con le dita?" Ad ogni modo, scusate...non c’è nulla di peggiore che passare alla posterità con uno sciocco e stupido sorriso fissato sulla faccia per l’eternità".











By -Il Post-
Vecchie fotografie tendono ad avere una cosa in comune, non importa il luogo o il soggetto: nessuna delle persone nelle immagini potrebbe mai rompere un sorriso.
Forse perché erano tutti miserabili, per tutto il tempo?

No. Nelle vecchie foto non si sorride e la risposta ha a che fare con l'arte del Cinquecento, la cultura e la tecnologia, spiega l'Atlantic.
Otto von Bismarck non sorrideva – e d’altro canto era soprannominato il cancelliere di ferro – ma non sorridevano nemmeno scrittori come Mark Twain o Victor Hugo e nemmeno scienziati come Guglielmo Marconi.




Marie Curie-Skolodowska e suo marito, Pierre Curie, 

C’è dietro una storia interessante, in cui si mischiano cultura, storia e tecnologia. Ne ha scritto l’Atlantic, riprendendo un articolo pubblicato sulla Public Domain Review da Nicholas Jeeves, che insegna alla Cambridge School of Art.
La questione delle facce seriose risale a molto più indietro delle prime fotografie. Chi si fa un giro nelle gallerie di ritratti dei musei troverà pochissimi ritratti di gente sorridente (e di solito la gente non sorride nemmeno negli altri dipinti). Il massimo che si può trovare, magari nel ritratto di qualche personaggio ambiguo o misterioso – e di certo non in quello di un nobile o di un re – è un tenue sorrisetto – il più famoso dei quali è quello della Monna Lisa, ed è proprio una di quelle cose che rendono il dipinto così particolare.



Soprattutto nel Rinascimento e nei secoli successivi, il ritratto non era in primo luogo una rappresentazione realistica del soggetto, ma principalmente una sua idealizzazione da consegnare all’eternità.



Le qualità fisiche della persona ritratta erano meno importanti delle sue qualità morali. I tratti quindi finivano ingentiliti e i difetti smussati. Ma soprattutto i sorrisi dovevano scomparire – quale re, nobile, mercante o imperatore avrebbe ritenuto che l’essere divertente fosse una qualità morale da immortalare in un ritratto?

Quando qualche secolo dopo comparve la fotografia, la nuova arte rimase a lungo in uno stato di sudditanza nei confronti della pittura, e questo si vide anche nella ritrattistica. Quello che valeva per i ritratti fatti con il pennello, valeva anche per quelli con le macchine fotografiche, esattamente come i primi libri a stampa, alla fine del Quattrocento, cercavano di riprodurre fedelmente tutte le caratteristiche della scrittura a mano dei manoscritti. Il fatto che nelle fotografie non bisognasse sorridere, come non si sorrideva nei ritratti, venne espresso in maniera molto chiara proprio da Mark Twain in una lettera inviata ad un giornale: «Una fotografia è il documento più importante e non c’è nulla di peggiore che passare alla posterità che con uno sciocco e stupido sorriso fissato sulla faccia per l’eternità».





In realtà, molto prima della definizione sprezzante di Twain, il sorriso aveva trovato il suo spazio nella pittura. Se la solennità e la seriosità erano il segno dell’aristocrazia o comunque di forti qualità morali, allora il sorriso poteva descrivere con efficacia il loro opposto. Nell’arte del Cinquecento, e poi ancora di più in quella del Seicento, i sorrisi erano relegati alle rappresentazioni degli strati più bassi della popolazione. Chi rideva era un ubriaco, un dissoluto e comunque di sicuro una persona volgare.
Molti pittori olandesi del Seicento, come Rembrandt ad esempio, sono diventati famosi per i ritratti di popolani che ridono, bevono o festeggiano. Dipingere gli strati più bassi della popolazione con un bel sorriso era concesso, ma utilizzare il sorriso per altri temi era considerato un comportamento da iconoclasti. Caravaggio, racconta Jeeves, diede scandalo dipingendo Eros come un bambino nudo con un largo sorriso malizioso.



Ma con l’arrivo della fotografia ci fu un nuovo problema, anche per coloro che desideravano rompere le regole e riprendere soggetti ubriachi e sorridenti. Le prima macchine fotografiche avevano un lungo tempo di esposizione, molto più lungo del tempo medio in cui una persona riesce a mantenere un sorriso naturale. Sorrisetti o espressione serie erano molto più facili da mantenere rispetto a un largo sorriso che avesse anche un aspetto sincero.



Con il progresso della tecnologia, nel corso dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, divenne possibile fare foto che cogliessero l’istante del movimento, senza dare origine a un pasticcio sfuocato e sovraesposto. Altri due fenomeni procedettero insieme a questo progresso tecnologico: da un lato la cultura diveniva sempre più popolare e non c’era più bisogno di esprimere una costante serietà e solennità in ogni gesto, dall’altro fare fotografie diventava più semplice ed economico e quindi era possibile farne di più. Non era più questione di tramandare ai posteri la propria immagine con un unico ritratto o al massimo con qualche fotografia.



La creazione di macchine fotografiche abbastanza economiche da poter essere acquistate da tutti – ciò che fece ricco il signor Eastman, fondatore della Kodak, più o meno 120 anni fa – ha fatto sì che si diffondesse la tradizione di fotografarci in tutti i nostri stati d’animo.


 GEORGE EASTMAN

E questa usanza si è trasferita anche ai più importanti dei soggetti che si possono fotografare.


Oggi i politici si assicurano che siano sempre disponibili foto che li ritraggano in tutto lo spettro dei sentimenti umani: dallo sguardo solenne e imperioso, alla composta tristezza, fino a quello che fino a un secolo destava il massimo scandalo, un largo sorriso che lascia i denti scoperti.


-ANNAMARIA- 



COACH DELLE ABITUDINI




Quando ti sembra che un problema ti stia mangiando, quando credi che tutto andrà male perché in questo momento stai avendo difficoltà, la migliore cosa da fare è agire. 
Non però in modo sconclusionato, solo per apparire "occupato" a cercare una soluzione. E' un'azione laser, che ti porta una valanga di vantaggi. Il vantaggio è doppio: diminuisce molto la paura e ti concentri solo sulle azioni fondamentali. Come fare? Ecco alcuni spunti: 
1) Chiediti: quali sono le azioni fondamentali per eliminare il problema/raggiungere il mio obiettivo?
2) Qual è la prima azione da fare che mi porterà maggiore vantaggio?
3) Cosa farò oggi?
4) Quale abitudine costruirò che mi porterà fuori dal problema/verso l'obiettivo in breve tempo?




Annamaria



martedì 8 marzo 2016

STORIE DI DONNA - L'ULTIMO SMS DI LEA GAROFALO "TORNO A MILANO PER RICOMINCIARE"







di Emanuela Zuccalà

“Volevo impedirle di andare a Milano, avevo persino tentato di trattenerla fisicamente. Lei mi rassicurava: ‘Avvocato, non si preoccupi: finché con me ci sarà Denise, non mi accadrà nulla’. Così quel giorno a Firenze prendemmo due treni per direzioni diverse, e durante il viaggio continuavamo a mandarci sms. ‘Tornate indietro’, le scrivevo, ‘scendete a Piacenza, abbiamo già un posto dove sarete al sicuro’. Lei a un certo punto mi rispose: ‘Grazie avvocato, che Dio la benedica, Denise e io accettiamo la sua proposta di rifarci una vita’. Ma a Piacenza non è scesa. Quattro giorni dopo mi hanno chiamata i carabinieri di Milano”.

E l’avvocato Enza Rando ha dovuto spiegare loro che quella donna sparita di sera all’Arco della Pace era una testimone di giustizia, una che aveva fatto nomi e cognomi sulla faida di ‘ndrangheta che dal suo paese natale, Petilia Policastro in provincia di Crotone, si era dislocata a Milano. Una donna che a 35 anni aveva già attraversato troppe vite e le restava soltanto Denise. Sua figlia, il suo futuro.


Lea Garofalo è scomparsa a Milano la sera del 24 novembre di tre anni fa. Lo scorso marzo, il suo ex compagno Carlo Cosco e altri sei uomini sono stati condannati all’ergastolo per il suo omicidio e l’occultamento del cadavere.

Le hanno sparato, e sciolto il suo corpo in 50 litri di acido. Il 20 novembre 2009, quando a Firenze si congedava dall’avvocato Enza Rando per andare a Milano a incontrare Cosco, Lea era certa di una cosa: “Mi fermo solo per recuperare una somma di denaro che quell’uomo mi deve. In così poco tempo non riuscirà a organizzare il mio omicidio”.

LEA CON LA FIGLIA DENISE

Si sbagliava. Le indagini non sono riuscite ad accertare con esatezza né il momento né il luogo in cui è stata uccisa, ma di certo in un terreno nella frazione di San Fruttuoso a Monza.

Si sbagliava, sebbene la ‘ndrangheta Lea la conoscesse bene. Suo padre era stato ammazzato quando lei aveva nove mesi. Suo fratello Floriano Garofalo, prima di essere anche lui assassinato nel 2005, da Petilia Policastro muoveva i fili dello spaccio a Milano in zona Baiamonti-Montello, insieme alla cosca di Coco Trovato. Gli uomini e le donne della famiglia Cosco sbrigavano il lavoro sporco, tagliavano la droga sotto gli occhi di Lea. Che aveva fatto la “fuitina” a 13 anni con il ragazzo di cui s’era innamorata proprio per dimenticare la Calabria e abbracciare un mondo nuovo a Milano, fatto di regole diverse e senza strade imbrattate di sangue. Invece qui si era ritrovata in un ambiente identico, con i picciotti della ‘ndrangheta che si ammazzavano tra loro, nello stabile di via Montello 6 di proprietà della Fondazione Policlinico occupato abusivamente da famiglie calabresi che campavano con la droga.

Aveva partorito la sua bimba a 17 anni e mezzo, Lea. E anche per lei, come per altre donne nate e cresciute nel ventre delle mafie, la maternità ha innescato un corto circuito. La sociologa Renate Siebert  nel suo Mafia e quotidianità scrive che il mafioso non si fida delle donne perché in ogni donna c’è una madre. E la madre Lea Garofalo desidera per la sua Denise un avvenire fatto di scelte libere e non di ineluttabili destini graffiati dall’obbedienza e dalla morte intorno. Così, quando Carlo Cosco viene arrestato nel 1996 per traffico di droga, lei lo lascia. Parte con la figlia, alla quale sempre risparmierà i colloqui in carcere con il padre.

Nel 2002 Lea Garofalo denuncia i loschi affari del suo uomo e diventa testimone di giustizia. Non collaboratrice, come erroneamente è stata indicata: l’unico reato che ha commesso è stato dare uno schiaffo a una ragazza che aveva offeso la sua Denise, e che l’ha poi denunciata per lesioni. La prima udienza si teneva a Firenze il 20 novembre del 2009: è stato quel giorno che il suo avvocato Enza Rando ha tentato di trattenerla dall’andare a Milano. Ma Lea era povera, sofferente, disorientata. Carlo Cosco le doveva dei soldi. Li avrebbe presi e, con Denise, si sarebbe messa nelle mani dell’associazione Libera per ricominciare altrove. Le telecamere di corso Sempione a Milano la filmano la sera del 24 novembre 2009


Denise sale in auto con il padre, che vuole portarla a trovare gli zii. Madre e figlia devono ricongiungersi più tardi per prendere un treno, ma quando Denise torna in corso Sempione, di fronte al bar Marilù, Lea non c’è. E mai arriverà.

Lea Garofalo avrebbe voluto studiare e diventare avvocato, ma i condizionamenti della sub-cultura in cui era cresciuta glielo avevano impedito. Eppure parlava bene e scriveva bene, nutriva passione per la correttezza del linguaggio perché le parole contano, diceva al suo avvocato. E anche per questo non tollerava di essere definita una pentita, perché lei della ‘ndrangheta non aveva mai fatto parte. E non tollerava di essere stata estromessa, a un certo punto, dal programma di protezione. In un verbale del 2005 diceva:

“Non si vive, si sopravvive in qualche maniera. Si sogna chissà cosa fuori, che sia sicuramente meglio, perché niente sarà peggio di quello”.

Oggi c’è Denise, che ha 21 anni, studia, vive in una località segreta sotto protezione. Al processo del padre e degli altri cinque uomini che le hanno strappato la madre, si è costituita parte civile con un coraggio fuori dal comune.

Quando ha visto il film su Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia siciliana che si tolse la vita dopo l’assassinio del giudice Paolo Borsellino, Denise si è identificata nella piccola eroina tragica di Partanna. Solo che lei ha ancora una gran voglia di vivere. “E’ come un bimbo che impara a poco a poco a camminare sulle sue gambe” dice Enza Rando, che in questi giorni ha avuto il doloroso compito di comunicare a Denise l’ennesimo lutto: la morte della nonna Santina. La donna in nero, immagine immobile della Calabria profonda, che non ha mai compreso fino in fondo la scelta della figlia Lea di voltare le spalle alle leggi della ‘ndrangheta che paiono scolpite nella pietra.

Il 24 novembre alle 14.30, il Presidio Giovani dell’associazione Libera ricorderà la ribellione amara di Lea Garofalo piantando un albero in sua memoria all’Arco della Pace.


Lea Garofalo
Mentre mercoledì 21, alla Biblioteca di piazzale Accursio a Milano, l’associazione Saveria Antiochia Omicron  ospiterà Giovanni Impastato, sua moglie Felicetta e la responsabile di Libera Milano Ilaria Ramoni nella conferenza “Donne contro la mafia” in cui, partendo dalla vicenda di Lea, si rifletterà su come le donne possiedano una chiave per scardinare i sistemi mafiosi che fino a ieri le relegavano a un silenzioso pianto sui loro morti.

“Solo attraverso le donne si può cambiare l’educazione dei figli” fa notare Jole Garuti, direttrice di Saveria Antiochia Omicron. “Finché avremo donne convinte che il figlio maschio dev’essere educato alla vendetta e la femmina al silenzio, non faremo passi avanti nella lotta contro le mafie. Invece ci sono tante donne che hanno avuto il coraggio di dire no, quasi tutte per motivi personali: l’amore per i figli, il desiderio di un futuro diverso. Dobbiamo riuscire a riunirle in un movimento, a far sentire loro la solidarietà della società intera, per condurle fuori dalla loro sofferente solitudine”.

L’OTTO MARZO… M’ARZO E LOTTTO!


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E come ogni anno ,l’8 marzo, si ripete la celebrazione (o festa) della donna e come ogni anno piovono le solite critiche da parte di molte donne nei confronti di altre per come concepiscono questa giornata, magari biasimandole di perdere di vista il vero senso e significato di questa giornata ,che vuole ricordare, commemorare le battaglie vissute dalle nostre antenate.

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Grazie a loro abbiamo raggiunto obiettivi che ci rendono pari (quasi) al genere maschile.
Io sono fiera di essere donna . Senza la donna non c’è vita. Mi viene in mente la recente storia di un politico gay che con il suo compagno è diventato genitore grazie a una donna.
Purtroppo il consumismo è avanzato da tempo ( anche nella procreazione) ed anche l’8 marzo è diventata una festa commerciale: avremo sconti nei vari negozi, l’entrata gratis nelle varie discoteche oppure l’ingresso gratuito alla Pinacoteca di Brera, qualche mimosa regalata qua e là . Addirittura un gestore telefonico ha avuto l’iniziativa di farci telefonare gratis in questo giorno, ovviamente per farsi pubblicità.

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Questo giorno ,per molte aziende, è un modo per mostrarsi. Ormai è tutto un marketing al giorno d’oggi : San Valentino, la festa del papà e poi della mamma , Pasqua ,Natale e così via.
Ormai per nessuna festa o ricorrenza religiosa c’è lo spirito che dovrebbe starci dietro. Questo è un dato di fatto e vale anche per questa giornata. Perciò dico, care donne, vivete, viviamo liberamente come ci pare questa giornata: vogliamo andare per musei? Vogliamo starcene in casa e preparare una cenetta alla famiglia? Vogliamo uscire la sera e trascorrerla con amiche? Una gita? Oppure vogliamo partecipare attivamente a qualche dibattito delle varie manifestazioni nella nostra città? Siamo libere di scegliere. E non solo oggi! La vera celebrazione ,secondo me, è questa:  poter essere libere di fare ciò che vogliamo e che sentiamo per gusti e cultura. Tanto qualsiasi cosa facciate sarete sempre criticate …da altre donne.
Noi donne siamo anche questo.

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L’importante è non perderne il significato.
Dunque, a prescindere dalla concezione personale di questa festa, che vuole ricordarci le conquiste non solo sociali ma anche politiche ed economiche ( c’è ancora molto da fare) oltre le discriminazioni e le violenze faccio i miei Auguri a tutte le donne! Un augurio speciale lo dedico a una donna speciale, Natalina.

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 Annamaria