mercoledì 6 ottobre 2010

Le notizie segnalate da CATERINA -

 LA STORIA
"Sono Joseph, il testimone
della strage dei Casalesi" 


La notte tra il 18 e il 19 settembre 2008 la camorra colpisce il mondo degli extracomunitari. In sei restano a terra senza vita, ammazzati dal commando di fuoco del boss Giuseppe Setola. Intervista al sopravvissuto del massacro di Castel Volturno: "Hanno distrutto la mia vita, io vivevo onestamente, adesso sono costretto a nascondermi dagli uomini di morte"

 VIDEO La vita prima della strage



"Sparavano, colpendo tutti quelli che c'erano. Io ho preso più di quindici proiettili. Tatatatatatatattata. Ma mentre loro uccidevano, Dio lavorava su di me". Joseph Ayimbora racconta l'attimo in cui la morte gli è passata davanti, l'istante in cui gli stragisti dei casalesi gli hanno voltato le spalle senza accorgersi che respirava ancora. Joseph è il cittadino ghanese sopravvissuto alla strage del 18 settembre 2008, a Castel Volturno.

Si finse morto, mentre i cadaveri insanguinati dei suoi sei compagni gli coprivano quasi tutto il corpo. Lui aveva preso "soltanto" quindici pallottole di pistole e kalashnikov. Fu ferito al braccio, al petto, alle gambe, alle natiche, a un piede. Joseph ha già testimoniato contro l'ala stragista del superkiller Giuseppe Setola, nell'aula del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Ora per la prima volta racconta a Repubblica quella scena di terrore, il panico da cui non riesce a liberarsi, persino un incredibile episodio di malasanità che ha aggravato il bilancio dei danni permanenti alla salute.

A pochi giorni dal rifiuto del sindaco di Castel Volturno di commemorare i suoi connazionali uccisi, Joseph gli manda un messaggio: "Io rispetto lui, ma lui deve rispettare quelli che sono stati uccisi. Il sindaco che ne sa delle vite di quei morti, non c'era quando c'è stata la strage. Erano tutti puliti, nessuno faceva droga. E la mafia ha tolto loro la vita".

"Piacere, Joseph". Un uomo alto e corpulento, ma il passo è irregolare e dolente per via delle tracce lasciate da quelle sventagliate di mitra. Una t-shirt bianca a righe chiare, uno sguardo che non si cela e che solo durante le riprese verrà protetto da un paio di occhiali a specchio. Anche la coppola in lana inglese è calata sul capo per lasciare scoperta appena la nuca.

L'appuntamento è alle 13 in uno stanzone spoglio, dove c'è un tavolo grande e sgombro, alle pareti stampe dell'antica capitale e nessuna traccia di luce naturale. Siamo nel palazzo  -  per lui  -  più sicuro di Roma: piano terra dell'edificio che ospita il Servizio centrale di protezione, quartiere Eur. In un angolo, due discreti poliziotti sorvegliano a distanza che il "testimone" sia a suo agio, che non abbia bisogno di nulla, e che le domande che gli vengono sottoposte non interferiscano con il processo in corso agli esecutori della strage di Castel Volturno.

Trentasei anni, una moglie che lavorava per la Croce Rossa fino al momento della strage, tre figli, Joseph ha studiato Ingegneria. "Ho perso il mio lavoro, la mia vita, anche la mia faccia. Prima vivevo come una persona onesta, ora devo nascondermi perché gli uomini di mafia sono uomini di morte. Oggi devo dire il falso se uno mi chiede che storia ho, devo dire il falso per stare in serenità con mia moglie e i miei figli. Ma gli altri sei ghanesi che erano con me in quella sartoria alla Domiziana ora sono sottoterra. Perciò io ringrazio il cielo continuamente. Non mi spiego ancora come faccio a essere qui, a parlare con lei".

Joseph, lei era un imprenditore. Titolare di due ditte regolarmente registrate, una delle quali in Ghana per l'export-import di pezzi di ricambio per auto e moto. Che cosa accadde la sera del 18 settembre 2008, al chilometro 43 della Domiziana, nella sartoria "Ob ob Exotic fashion"? E lei che cosa ci faceva lì?
"Ero tornato il giorno prima dal Ghana, per motivi di lavoro. E quella sera, nella sartoria "Ob Ob" avevo appuntamento con un mio amico. In fondo era un punto di incontro per i ghanesi che si conoscevano. Ho salutato il mio amico, e poi mi sono trattenuto a parlare con Babà Alagi, il sarto del locale. Avevamo dei soprannomi tra noi. Io lo chiamavo Babà Alagi, e lui Petit Pelé, piccolo Pelé, perché ho sempre amato il calcio, e lo giocavo spesso. All'improvviso li vedemmo entrare. Indossavano le pettorine dei carabinieri, ma io non ebbi paura, perché io sono pulito e non ho mai fatto niente di male e quindi ero tranquillo, pensavo a un controllo normale o al fatto che cercavano qualcuno e quindi mi voltai tranquillamente. E poi dopo pochi secondi... Come arrivano, sparano. Tatatatatatatatata, e mi sono trovato con i proiettili addosso".

Dove fu colpito?
"Alle spalle, qui dietro, più volte. Grazie a Dio un colpo per poco non ha raggiunto il cuore e poi altri colpi sono entrati da sotto la gamba, da sotto il piede, dalle natiche. Forse più di quindici proiettili. Guardi qui". Mostra due grandi lesioni nere sull'avambraccio destro, il segno di due fori".

Come ha fatto a salvarsi?
"Mentre loro uccidevano e sparavano, Dio lavorava su di me. È una cosa che non posso spiegare come mi sono salvato".

È vero che loro dicevano "Li dobbiamo uccidere tutti"?
"Uno di loro dice "bastardi neri", un altro dava altri insulti. Un altro chiede: "Sono morti tutti?". E l'altro dice: "Sì, sì". Non posso dire chi è quello che chiama, quello che risponde. Erano quattro o cinque. Tutti sparavano".

Lei dice: Dio ha lavorato per me. Ma anche lei ci ha messo del suo. Ha avuto la lucidità di fingersi morto.
"Neanche il mio avvocato lo sa, ora lo dico per la prima volta. Io da allora dico continuamente, prima di uscire. "Dio accompagna me fuori, Dio porta me dentro". Non so come ho fatto, mai pensavo che un giorno sarebbe andata così. Ancora oggi mi domando: perché io sono vivo? Ho avuto tanti di quei proiettili. Sono stato in ospedale due mesi. Piangevo tutti i giorni, il dolore era fortissimo. Mi sono tolto un proiettile a casa, da solo. Ce l'ho ancora con me, per ricordarmi tutto".

Intende: senza un medico? Dopo due mesi di ricovero, lei si è estratto una pallottola da solo, in casa?
"Sì, proprio così. Era una cosa strana. Continuavo a piangere, piangere. Mi faceva troppo male il piede. Poi i medici hanno capito che avevo ragione, hanno fatto una lastra e visto che c'era un altro proiettile. Ma mi hanno dimesso senza darmi un appuntamento, senza dirmi quando dovevo tornare per toglierlo. Quando ero a casa, da solo, sentivo un dolore così atroce che ho preso le forbici e mi sono tolto quel pezzo di piombo".

Pochi giorni fa, il sindaco di Castel Volturno si è rifiutato di commemorare i morti della strage con una lapide con la singolare motivazione che non c'è ancora certezza sulla loro innocenza. Quindi le chiedo: erano persone pulite le vittime, oppure spacciavano droga?
"Ecco il mio messaggio per il sindaco. Tu sindaco, non c'eri quando è avvenuta la strage. E tu non sei poliziotto, o carabiniere. Come fai a dire che alcuni di loro non erano puliti? Io lo rispetto, ma anche lui deve rispettare quelli che sono morti e non dire cose pesanti su di loro, ché non possono più rispondere. Il sindaco deve pregare per loro. Quelle persone erano pulite, non avevano problemi con la legge. Io conoscevo alcuni di loro, sapevo che lavoravano sempre".

"Repubblica", nelle settimane successive alla strage, pubblicò il suo appello: non lasciatemi solo. Chi ha avuto vicino in questi due anni?
"I miei amici, la mia famiglia. E i poliziotti. Quando io piangevo, mi lamentavo, loro mi sono sempre stati vicini".

In cosa è cambiata la sua vita, in un'immagine?
"Prima vivevo come una persona onesta. Ora vivo come una "persona bugia". Ai miei vicini, ai conoscenti non posso dire niente di quello che sono e la storia che ho. Non ho un lavoro, mia moglie non lavora, c'è chi si chiede: questo cosa fa. Certo, vado a prendere il mio bambino a scuola, poi lo porto al parco, poi leggo in internet i giornali per sapere cosa succede in Europa e nel mio Ghana. Ma nessuno sa dove sto, che faccio. È una vita troppo stretta, troppo complicata, una vita piena di bugie".

In questi due anni, è accaduto anche qualcosa di bello. È diventato padre per la terza volta, e ha chiamato suo figlio Alessandro. Perché?
"È il nome di un poliziotto che ha indagato molto sulla strage, e di un uomo che mi è stato molto vicino (il vicequestore Alessandro Tocco, dirigente della sezione della Mobile distaccata nel cuore di Casal di Principe, ndr). Lo sa chi è il padrino del battesimo? Un altro poliziotto, uno di quelli che mi segue dal giorno della strage".


Annamaria... a dopo

2 commenti:

  1. Storia di vita e di 'ndrangheta. Il racconto avvince ma la realtà sgomenta.

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