giovedì 12 dicembre 2013

ROSY CANALE, DA SIMBOLO ANTIMAFIA AL CARCERE



Si dice che l’occasione fa l’uomo ladro e che tutto il mondo è paese... non è facile resistere a un sacco di soldi in mano e la quasi certezza di farla franca. Troppi finanziamenti facili--- ma che ci sia un controllo strettissimo, come è stato fatto in questo caso.

A Rosy Canale  avevo dedicato un articolo, come donna coraggio, solo che stamane , per lei,  sono scattate le manette.  

È salva per miracolo. Lavorava come volontaria nella scuola e capisce che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza che però, incuriosite dai racconti dei figli, si avvicineranno a lei. Rosy diventa la locomotrice del Movimento delle Donne di San Luca, 400 donne sottoscrivono.
“La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndranghta, ma io non sono morta”, aveva dichiarato.
Ma stamattina è arrivato l'amaro risveglio e la fine dell'ennesimo simbolo. 

ARTICOLO DEL 6-11-13
ROSY LA DONNA CHE COMBATTE LA 'NDRANGHETA

.... la sua storia a teatro






Rosy Canale ha pagato cara la sua ribellione alla ‘ndrangheta. E nel 2004, dopo un anno di minacce, ha subito un violento pestaggio per aver impedito di spacciare droga al Malaluna, locale che gestiva a Reggio Calabria. Il 18 ottobre arriva al teatro Franco Parenti di Milano lo spettacolo che la vede protagonista (musiche di Franco Battiato). ‘La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndranghta, ma io non sono morta.’ Rosy Canale la violenza l’ha subita sulla sua pelle.
Quarant’anni anni, donna, madre, imprenditrice, nata a Reggio Calabria dove gestiva con grande successo il Malaluna, locale, discoteca e ristorante. Nel 2004 paga cara la sua ribellione alla ‘ndrangheta: dopo un anno di minacce, subisce un violento pestaggio (le rompono denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore) per aver impedito di spacciare droga al Malaluna. È salva per miracolo, ma ci vogliono tre anni di riabilitazione per riprendersi. Si trasferisce prima a Roma, poi a New York, inseguita da nuove minacce. Nel 2007, a seguito della strage di Duisburg  in Germania - sei morti per una faida tra due cosche di San Luca - Rosy decide di non rimanere a guardare e si trasferisce nel cuore della ‘ndrangheta calabrese. Lavora come volontaria nella scuola e capisce che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza che però, incuriosite dai racconti dei figli, si avvicineranno a lei. Rosy diventa la locomotrice del Movimento delle Donne di San Luca, 400 donne sottoscrivono. Obiettivo: creare possibilità lavorative e culturali in un territorio considerato ad altissima penetrazione mafiosa; portare bambini e giovani su una strada diversa da quella solita, scontata e inevitabile perché unica. La forza del movimento sono le sorelle, le madri e le figlie dei morti ammazzati che garantiscono, con turni di volontariato, l’apertura del centro ludico e di attività culturali. Poi tutto finisce perché le promesse delle Istituzioni (in tanti si erano scomodati a dare sostegno) non hanno mai avuto un seguito. Viene staccata la luce e tutto si ferma. Ancora oggi Rosy vive a New York, ma attorno a lei si è creata una grande energia e in molti si stanno offrendo per far risuonare la sua voce. Nel 2008 ha vinto il Premio per la Legalità del Comune di Locri.
Fonte Affaritaliani.com 



E Rosy la sua brutta esperienza l'ha raccontata anche in un libro

“La mia ‘ndrangheta" scritto insieme alla giornalista Emanuela Zuccalà
Raccontano una storia individuale che si fa corale nella testimonianza delle donne di San Luca, tentando di disegnare una speranza per la Calabria. Un percorso intimo, ma allo stesso tempo giornalisticamente oggettivo e documentato, attraverso il diagramma femminile di un Sud teso e complesso, dove spesso il sentimento prevale sulla ragione ed è un bene. Perché la madre che vive dentro ogni donna comincia davvero a preoccupare le cosche.


Dal Prologo del libro di Rosy ( paoline 2012)

La «signora Malaluna» era bellissima: i capelli rosso fuoco, il tacco tredici indossato con disinvoltura mentre faceva roteare i cocktail al bancone del suo locale, il più trendy di Reggio Calabria. Ma in certe terre amare prima o poi qualcuno busserà alla tua porta per importi complicità e obbedienza.

Rosy Canale dice no, e la sua vita si schianta la notte in cui la ’ndrangheta decide d’impartirle una tremenda lezione di violenza. Si spegne, la «signora Malaluna», per risvegliarsi anni dopo, il 15 agosto del 2007, quando le immagini di sei corpi crivellati a Duisburg, in Germania, fanno il giro del mondo ricordando a tutti che la ’ndrangheta è feroce e ramificata. E che San Luca, il paesino della Locride noto per una faida decennale tra cosche, resta «la mamma» del crimine calabrese.

È da lì che Rosy riparte, dal suo impegno tra le donne in Aspromonte che, come lei, cercano un destino diverso, non più solcato dal dolore e dal sangue. Entrando nei loro cuori con rara trasparenza e creatività, la protagonista va dritta all’anima della propria terra che l’ha tradita. E che paradossalmente solo a San Luca, il paese della ’ndrangheta, le offrirà una riconciliazione.




Rosy e quel tutto bianco

E mi sono svegliata in questa stanza bianca.
Era tutto bianco.
Inclinando un poco la testa, cercavo di guardarmi il corpo. Anche il mio corpo era bianco. Forse 
lo ricopriva un lenzuolo.
Ho pensato: ecco, sono morta. Ma nel fondo di me stessa, di ciò che ne restava, non avvertivo né vita né morte.
Era tutto bianco.
E io mi sentivo divorata da quel bianco, come diluita dentro un non-colore di cui ero evanescente sfumatura.
Non riuscivo a vedere alcuna sagoma di letto, di comodino, di chiodo alla parete, di finestra.
Era tutto bianco.
Un’immagine sporca il candore assoluto. Non chiedermi se sia realtà o sogno.
Mio padre che entra nella stanza, si volta verso di me, mi guarda, cade a terra.
Un uomo in divisa lo afferra per le braccia, lo solleva, lo fa uscire.
Dentro la caligine bianca, il volto di mio padre mi era parso lo stesso di tanto tempo prima, di un giorno ormai cancellato: avevo quindici anni, ero scappata di casa saltando su un treno per Roma. Mio padre era venuto a prendermi. Era lì, con mio zio, alla metropolitana di Colli Albani, e mi salutava da lontano con la mano.
Scusa, non riesco a non piangere.
Non chiedermi di più. Non ricordo altro.



Teresa e quella strage degli innocenti

E allora ho deciso che ai funerali ci saremmo vestiti tutti di bianco.
Ai miei familiari ho detto: dobbiamo sconfiggere il male. Il male acceca.
Il bianco è purezza. Innocenza. Dolore profondo che ti resta dentro per sempre ma noi dobbiamo saperlo convertire in speranza e perdono.
Siamo arrivati in chiesa vestiti di bianco affinché il male non continuasse.
Mio figlio Francesco era innocente. Mio fratello Sebastiano era innocente.
Tutti sappiamo che quella è stata una strage degli innocenti. Tante persone ne sono state toccate. Come hanno ucciso mio figlio, potevano uccidere i figli di qualsiasi altra madre.
A Duisburg sono caduti sei innocenti. Ed è giusto dire basta. È giusto che anche noi donne troviamo la forza di fermare il male.
Il bianco ci ha dato una speranza. Ci ha aiutati a creare un’atmosfera di perdono nella nostra comunità.
Hanno scritto che io avrei fermato la faida, che la mia maglietta bianca era un messaggio rivolto a qualcuno.
Non è vero.
Il bianco non era che la negazione dell’odio.
Se avessimo continuato a fare il male e ad alimentare l’odio, avremmo distrutto noi stessi per primi.



Antonia e … quel copriletto bianco

Venga dottoressa, le mostro la camera di Marco.
Come? Le piace il bordo di tulle di questo copriletto bianco?
Pensi che fa parte di un corredo così, andante.
La mattina che mio figlio è partito per la Germania, io gli ho cambiato le lenzuola, la federa, il coprimaterasso.
A me il bianco non piace ma questo copriletto è capitato fra i tessuti che mia madre mi ha lasciato in dote.
Pensi che non lo avevo mai messo sul mio letto, non mi piaceva.
Quella mattina di agosto l’ho messo sul letto di Marco.
È capitato.
L’ho lavato l’altro giorno per la prima volta, dopo anni, e l’ho riposto ancora sul letto matrimoniale dove mio figlio giocava con i nipotini e io ridevo e gli dicevo:
« Mi sembri un bambino anche tu ».
E così, senza intenzione, mi sono ritrovata a vestire di bianco il letto di mio figlio poco prima che venisse ammazzato.
Bianco come la sua anima pulita, come quel monaco che mi è apparso in sogno tre giorni prima della strage, e nel sogno c’era qualcuno che voleva uccidere tre innocenti e io correvo, correvo...
Bianco come l’innocenza di Marco. Perché mio figlio era un ragazzo innocente. E io lo ripeterò finché avrò vita.



Annamaria... a dopo


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