domenica 31 ottobre 2010

Allarme per il figlio di Sakineh: torturato insieme all'avvocato


Inghiottito nelle carceri iraniane per aver difeso con tutte le sue forze l’innocenza della madre e averne parlato con i giornali occidentali. Del figlio ventiduenne di Sakineh Ashtiani, la donna condannata alla lapidazione, non si hanno più notizie da domenica 10 ottobre, quando è stato arrestato insieme al suo avvocato Houtan Kian e a due giornalisti tedeschi che lo stavano intervistando. Ieri è arrivata una segnalazione che sarebbe stato torturato e forse trasferito nello stesso carcere dove è prigioniera anche la madre, a Tabriz. Si tratta di informazioni raccolte attraverso «radio carcere» e dunque provenienti da fonti riservate, voci raccolte da Mina Ahadi, portavoce in Germania dell’International Committee Against stoning.

La donna, una iraniana esule in Germania, è colei che aveva organizzato l’incontro con i due reporter tedeschi e a distanza faceva da interprete tra il giovane Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh, accompagnato dal suo avvocato, e i giornalisti. «Alla terza domanda - racconta sul sito dell’Icas - mi sono accorta che c’era qualcosa di strano e ho chiesto cosa stesse succedendo. Poi ho capito che li stavano arrestando tutti e quattro». La signora Ahadi è certa che fin dai primi giorni di detenzione il figlio di Sakineh sia stato sottoposto a una forte pressione dai suoi carcerieri. «I familiari non hanno avuto più notizie di lui. Abbiamo provato a far avere a Sajjad una difesa legale ma ci hanno spiegato che gli avvocati non potevano né rappresentarlo né aiutarlo». Le ultime rivelazioni raccolte da fonti che restano anonime risalgono a martedì scorso, dicono che l’avvocato Kian è stato trasferito nella prigione di Tabriz, dove sarebbero reclusi anche i due giornalisti di nazionalità tedesca. Forse anche Sajjad. All’Icas risulta che l’avvocato Kian sia stato «picchiato e molestato» dietro le sbarre. Ma che le attenzioni più pesanti si siano concentrate soprattutto sul figlio della donna condannata per adulterio e concorso in omicidio del marito. A tutti e due viene imputato in particolare il rapporto diretto con la stampa occidentale, tra cui quella italiana, attraverso la quale Sajjad negli ultimi giorni prima del suo arresto aveva chiesto per sé e per la sorella di potersi rifugiare in Italia. La pressione si era fatta forte, aveva paura di ritorsioni. E tutto era sembrato precipitare già il giorno prima dell’ultima, interrotta, intervista. Sabato 9 ottobre l’avvocato Kian recandosi in Tribunale aveva scoperto che il caso Sakineh gli era stato tolto. Aveva chiesto se il fascicolo fosse stato affidato ad un altro giudice ma non aveva ottenuto risposta.

Appelli per la liberazione
Ora il Comitato contro la lapidazione da Berlino si appella alle istituzioni e alle organizzazioni che hanno a cuore i diritti umani affinché rilancino la campagna per salvare Sakineh e la estendano adesso anche al figlio, all’avvocato e ai due reporter tedeschi, «colpevoli soltanto di aver cercato la verità». La richiesta è che «vengano rilasciati immediatamente e senza condizioni».
La cancelliera Angela Merkel ha chiesto fin da subito la liberazione dei due giornalisti tedeschi che al momento sarebbero accusati di aver intessuto «legami con elementi controrivoluzionari» iraniani residenti in Germania, riferimentosi evidente proprio a Mina Ahadi e al Comitato contro la lapidazione. Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha fatto sapere che sta facendo il possibile per far tornare i due in Germania il più presto possibile. Il vice ministro degli Esteri iraniano Ali Ahani due giorni fa era a Roma per un convegno sui rapporti bilaterali Iran-Italia e a proposito di Sakineh ha ribadito che Teheran non accetta intromissioni. «Il processo è in corso e presenta molti punto oscuri», ha detto aggiungendo che l’Iran «accoglie con favore ogni invito al dialogo sui diritti dell'uomo ma non accetta doppi standard, nè discriminazioni». Dal governo di Roma non è arrivata alcuna dichiarazione né allora né dopo a favore del rilascio di Sajjad e di Kian. Mica è un «figlio di Mubarak»


Sakineh

Parla la giornalista che ha condiviso la cella

                         Shahnaz Gholami

Carcere di Tabriz, Iran. In quattro camerate, pochi metri quadrati sudici e senza luce, sono rinchiuse duecento donne, divise a seconda del reato per cui sono state arrestate. Tra di loro, c'é Sakineh Mohammadi-Ashtiani, accusata di adulterio e complicità nell'omicidio del marito. Si proclama innocente ma, un giorno, le autorità le fanno firmare un documento redatto in farsi, lingua a lei totalmente sconosciuta: è la sua confessione, quella che le fa rischiare a lungo la condanna alla lapidazione. Shahnaz Gholami, giornalista iraniana che ora vive in Francia, per 99 giorni, tra il 2006 e il 2007, ha condiviso la stessa cella di Sakineh. E, in un incontro con l'ANSA a margine di un convegno, a Pordenone, sulla discriminazione femminile in Iran, ha raccontato la tragedia della sua compagna di prigionia: "Quando ha capito, Sakineh è svenuta dalla disperazione".

La Gholami è certa della sua innocenza. "Non ha mai accettato la tesi dell'accusa e se lo ha fatto è perché è stata torturata", ha spiegato l'ex prigioniera. Poi, in tribunale, una mattina, le hanno fatto leggere la sua confessione, in farsi.
"Sakineh è quasi analfabeta e parla solo l'azero, ha firmato senza capire nulla. Solo dopo, la direttrice del carcere le ha rivelato cosa comportava quella firma, facendola piombare nella diperazione", è il ricordo della Gholami. Fino ad allora, Sakineh "si era distinta per il suo ottimismo, per la sua voglia di vivere. Era convinta di farcela, anche perché, secondo la sua versione, non aveva mai tradito il marito. E non lo aveva ucciso: l'uomo era morto accidentalmente, fulminato mentre faceva la doccia".
La Gholami, sfruttando un permesso accordatole per il suo cattivo stato di salute, è fuggita dall'Iran, rifugiandosi prima in Iraq, poi in Turchia, infine in Francia. Ma ha trascorso sei anni nella prigione di Tabriz.
"Eravamo duecento, io ero nella stanza assegnata alle donne accusate dei reati più gravi. Trenta di loro, erano già state condannate a morte". Le detenute erano isolate, spesso sottoposte a torture finalizzate ad "ottenere confessioni di reati inesistenti". Dall' undici agosto scorso, non si hanno più notizie di Sakineh. E la Gholami ammette di essere "molto preoccupata. Già tre anni fa era molto dimagrita ed era stordita dai sonniferi".
Da tre settimane, in carcere, ci sono anche Sajad Qaderzadeh e Javid Hutan Kian, figlio e avvocato di Sakineh. "Entrambi sono stati picchiati. Kian, forse, sarà processato la prossima settimana. Sajad è ancora sotto tortura", ha spiegato nel corso del convegno la presidente del Comitato contro la lapidazione Mina Ahadi, sottolineando che "in Iran nessun legale ora è disposto a difendere Sajad, per timore di essere arrestato".

 Annamaria...a dopo

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