Mi sono imbattuta ,per caso, nel sito in quanto donna ed è veramente agghiacciante vedere tutte queste foto di donne (uccise) e uomini apparentemente con visi normali , banali, sereni. Un mucchio cronologico di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la "loro" donna. Bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate , (l'ultima ieri , una maestra di Albano Laziale.) Una carrellata di assassini da brividi. Alcune facce sembrano anche rassicuranti. Messe tutte insieme sono terribili.
http://www.inquantodonna.it/ è una sorta di bacheca delle vittime e dei "sicari domestici", la banca dati per tutte le donne che si battono contro la violenza e per chi se ne occupa . Ideata da Emanuela Valente che ha raccolto nomi, storie, documenti processuali, foto e storie per raccogliere la documentazione più
ampia possibile intorno al cosiddetto «femminicidio».
Sia ben chiaro che non ci sono tutte le donne assassinate negli ultimi anni . La curatrice, che via via aggiorna l’elenco coi nomi e le storie anche delle vittime di cui non esistono le fotografie, non ha voluto mischiare tutti i casi insieme perchè se una donna è stata uccisa in una rapina in banca o per aver litigato su un prestito, ad esempio, la ideatrice ha preferito lasciar perdere.
Quanta ferocia si nasconde dentro esistenze apparentemente anonime. «Strano, era un cosi bravo uomo…». «Mai dato problemi sul lavoro…». «Sempre così gentile, così educato…» etc...etc...
Alcuni, come Salvatore Parolisi (il marito assassino di Melania Rea) o Mario Albanese (il camionista che un anno fa uccise a Brescia l’ex moglie Francesca, il suo compagno, una figlia e il suo fidanzatino) son finiti sulle prime pagine. Altri hanno avuto qualche titolino qua e là. Quello che li accomuna, accusa Emanuela Valente, è la volontà di affermare il «dominio» sulla donna assassinata. E spesso l’aver beneficiato di una certa «indulgenza» giudiziaria.
Come «Ruggero Jucker detto Poppy, 36 anni, rampollo della Milano bene, Re della zuppa. Fa a pezzi la fidanzata con un coltello da sushi e lancia pezzi in giardino. Condannato a 30 anni in primo grado, pena patteggiata in appello e scesa a 16 poi ulteriormente ridotta a 13. Ha già usufruito di 720 giorni di libertà come permessi premio e sarà libero nel giugno 2013». O l’impiegato palermitano Renato Di Felice che qualche anno fa uccise la moglie Maria Concetta Pitasi, una ginecologa, durante l’ennesima lite davanti alla figlia. Non aveva mai avuto grane con la giustizia, era descritto come un uomo mite sottoposto dalla consorte a piccole angherie quotidiane, era difeso dalla figlia: «Non ne potevamo più». Dopo due giorni, in attesa del processo, fu mandato a casa perché «non socialmente pericoloso». Mesi in cella dopo la condanna: dieci.
Per non dire di certi recidivi. «Emiliano Santangelo appena esce dal carcere uccide la ragazza che lo aveva fatto condannare per violenza sessuale. Quando Paolo Chieco — condannato a 12 anni e 6 mesi poi ridotti a 8 anni e 4 mesi per il tentato omicidio della convivente Anna Rosa Fontana — ottiene i domiciliari, a 300 metri di distanza dalla casa di Anna Rosa, finisce di ucciderla. E lo stesso fa Luigi Faccetti: condannato a 8 anni per il tentato omicidio della fidanzata, dopo appena 10 mesi ottiene i domiciliari e la uccide con 66 coltellate: 52 in più rispetto alla prima volta».
Quasi tutte le donne uccise, accusa la curatrice del sito, avevano subito già minacce e violenze, ma la maggior parte di loro non le aveva denunciate: «Quelle che l’hanno fatto, però, non hanno ricevuto alcuna protezione. Lisa Puzzoli, Silvia Mantovani, Patrizia Maccarini e molte altre sono state uccise dopo aver denunciato chi le minacciava, dopo aver chiesto ripetutamente aiuto. Monica Da Boit ha chiamato il 113, terrorizzata, poche ore prima di essere uccisa ma la pattuglia non è intervenuta. Sonia Balconi è morta per un “guasto elettrico al sistema informatico” che aveva fatto dimenticare le sue denunce…».
Fonte 27ora by-corriere.it
Oggi mi voglio soffermare sulla storia di Lia Pipitone ,morta il 23 settembre del 1983, figlia di un boss mafioso di Palermo ritenuta dal (non) padre una proprietà; accetta la figlia solo se lei si comporta secondo i canoni dettati da lui ...se lei si ribella agisce come un non uomo: uccide ciò che lui ha creato ma non a sua immagine e somiglianza. Un fallito, dunque, perchè non ha saputo farla diventare come lui. Il (non) nipote , il figlio della figlia, dal (non) nonno è stato disconosciuto perchè il fallito lo ha considerato come un non nipote ed è stata la salvezza del bimbo che è diventato, lui sì, un uomo.
Alessio è il vero uomo che non uccide ma ha continuato a far vivere la madre sempre e con tanto amore.
"Se muoio sopravvivimi", infatti, è il libro che ha scritto Alessio che all'epoca dei fatti aveva solo 6 anni, insieme al giornalista Salvo Palazzolo dove ricostruisce la vicenda di una 24enne ammazzata a Palermo nel 1983 non a causa di una rapina, ma per decisione del padre Antonino, boss mafioso, che non sopportava il suo animo libero.
Lia Pipitone |
da IFQ
Dicono che le strade di Palermo siano lastricate di sangue. Dicono che molto di quel sangue aspetti ancora giustizia. Perché per decenni a Palermo la gente moriva per strada e nessuno si era mai curato di capire perché. Non solo omicidi di mafia, carneficine tra boss di cosche avverse e assassinii di uomini che rappresentavano lo Stato dove lo Stato non voleva essere rappresentato. A Palermo la gente moriva anche perché si trovava semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato: una sparatoria, uno scippo, una rapina. Dicevano che Lia Pipitone fosse morta così. Una rapina in un negozio di sanitari, cinque colpi di pistola esplosi dai rapinatori poco prima di fuggire e la vita di quella ragazza spezzata sotto il bancone della cassa in cambio di un bottino di 250mila lire. Era il 23 settembre del 1983 e una Palermo in bianco e nero registrava i morti del giorno accanto alla colonna degli incidenti d’auto: troppi assassinii per potersi fermare un attimo su quello di Lia, giovane madre di 24 anni, che entrando in quel negozio di sanitari cambiò per sempre la vita del suo piccolo Alessio, 4 anni e una madre persa senza un perché.
L’omicidio di Lia Pipitone però non è solo una storia di ordinaria violenza in una città infernale. È qualcosa di molto peggiore, di più perverso di una semplice rapina finita male. Perché il padre di Lia si chiama Antonino Pipitone ed è un importante boss mafioso, una vera autorità nel rione dell’Acquasanta, una delle ultimi feudi inviolabili di Cosa Nostra a Palermo. Pipitone è un uomo rispettato, uno dei primi a capire che bisognava abbandonare i palermitani di Stefano Bontade e passare con i corleonesi vincenti di Riina e Provenzano. Lia invece è una ragazza libera, un’artista che vuole prendere in mano la sua vita, decidendo chi sposare e quando, ribellandosi a quel padre mafioso e autoritario. Una libertà negata prima da quei cinque colpi di pistola in un negozio di sanitari, e poi da un oblio lungo oltre vent’anni. Ed è per far luce su quell’oblio che suo figlio, Alessio Cordaro, decide, ormai 30enne, di ripercorrere la vita di sua madre, di capire se davvero si trattò soltanto di una normale rapina, o di qualcosa di peggio, come ogni tanto sussurrava qualcuno.
“Per anni – racconta Alessio – ho custodito con gelosia la storia di mia madre, i miei trascorsi tra quei silenzi imbarazzanti e le scuse che mi venivano fornite ogni volta che chiedevo come fosse morta mamma”. Poi però Alessio viene contattato da Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, che si è imbattuto per caso nella storia di Lia Pipitone e vuole approfondirla da cronista. I due cominciano quindi un’inchiesta postuma di trent’anni, una ricerca e una riorganizzazione analitica di tutti gli elementi che girano intorno alla vita di Lia Pipitone, cominciando proprio da quella rapina al rallentatore, quando i due rapinatori, dopo essere fuggiti con il bottino, tornarono dentro al negozio soltanto per assassinare la giovane madre a due passi dalla cassa. Nasce così “Se muoio, sopravvivimi” (Melampo, 174 pp, 15 euro), il libro che Cordaro e Palazzolo ricavano dalla loro ricerca tra atti giudiziari, vecchi articoli di giornale e interviste ad amici e conoscenti di Lia. Il risultato è un saggio double face, a metà tra l’inchiesta giornalistica sulla mafia dell’Acquasanta degli anni ’80 e ’90 e la ricostruzione della vita di quella donna che morì ribellandosi al padre mafioso.
Alessio |
Ecco l intervista rilasciata da Alessio al settimanale, Oggi nel 2012.
Quando è iniziata la sua ricerca della verità, Alessio?
«Non certo quando Salvo mi ha contattato su Facebook chiedendomi se fossi il figlio di Lia Pipitone e se avessi desiderio di provare con lui a reperire nuove informazioni. Il mio viaggio, in realtà, lo avevo già fatto, avevo già tirato le somme e mi ero arreso a ciò che avevo intuito, senza voler andare oltre. Arrivare al “chi ha ucciso” e al “perché è stata uccisa” tua madre non è un percorso così semplice».
Insomma, in realtà lei non voleva davvero sapere tutto su sua madre.
«Quando ho letto la proposta ho pensato di rispondere “mi spiace, non sono io”, e di chiuderla lì. Poi mi è venuta voglia di conoscere meglio mia madre. Non ne ho ricordi nitidi, e lo rimpiango: ero troppo piccolo, le immagini che ho di mamma sono frutto di narrazioni, comprensibilmente addolcite».
Suo padre, che cosa le disse di mamma Lia?
«La prima versione fu quella dell’incidente in bici. E per tanto tempo mi è stata bene».
E suo nonno?
«Lo vedevo quindici giorni all’anno, d’estate, e con lui non sono mai stato a mio agio. Sarà che con papà ci eravamo trasferiti dai nonni paterni, a 90 chilometri da Palermo ed ero abituato alla vita di paese, dove erano tutti più sereni… Sarà che era molto rigido, poco espansivo. Visitarlo era un dovere da assolvere. Come quello di andare a trovarlo in carcere, dove mi dicevano che era entrato per delle questioni fiscali o abusi edilizi, non so. Di lui, in famiglia, nessuno mi parlò mai male. Una volta gli dissi un “no”. Avevo 14 anni e volevo un motorino, sapeva che mi piaceva il Malaguti: mi fece trovare un’Aprilia. La lasciai lì. Ho sempre avuto difficoltà ad accettare qualcosa, anche se una volta mi ha trovato un posto da magazziniere: dopo tre mesi ho visto come mi trattavano, con troppo riguardo, e me ne sono andato».
Nel libro lei racconta che a un certo punto suo padre finalmente apre la scatola dei ricordi di sua madre e le mostra i ritagli di giornale sull’omicidio. Intanto alcuni pentiti, siamo nel 2003, fanno il nome di suo nonno come mandante del delitto, c’è il processo e lui viene assolto per insufficienza di prove. Possibile che lei non chiese spiegazioni?
«Ho avuto timore delle mie reazioni. Quante volte sono partito per chiederglielo e mi sono fermato all’ultimo momento! Credo di avere un carattere forte e di aver avuto un’autonomia superiore a quella dei miei coetanei ma la mia adolescenza non è stata semplicissima: lei sa cosa vuol dire quando a scuola riuniscono i genitori e tu vorresti avere lì tua mamma? In verità, parlavo poco di lei. Si capiva che c’era una ferita aperta solo quando, ritornato a Palermo a studiare alle superiori, succedeva che, anche scherzando, qualcuno dicesse “quella arrusa di to matri”. Puttana non è un complimento».
Scusi se insisto: ma almeno mettere alle strette sue padre? Lui, magari, sapeva…
«Io lo ammiro, perché o fai i bagagli con un figlio di quattro anni e vai dall’altra parte del mondo oppure in questo contesto sbatti contro vicende pesanti. Quando si è aperto con me e mi ha mostrato i fascicoli finalmente ha potuto condividere, penso, un peso. Io ho trovato conferma a quello che già sospettavo: mi era chiaro che qualcosa non tornava».
Sul nonno?
«Su Antonino Pipitone: dobbiamo sempre chiamarlo nonno?».
Pensa che suo padre non le abbia parlato prima per proteggerla?
«Indubbiamente. E poi lui è una persona ermetica. Era giovane, ha cercato la strada migliore per sopravvivere in un ambiente così, magari accettando compromessi. Io fino a prova contraria, credo che il nonno c’entri con quello che è successo. E penso che mio padre sia ancora più convinto di me. Di recente ha partecipato all’esperienza di Addio Pizzo contro il racket: è stato il suo modo di palesare finalmente alla società la sua opposizione a ingiustizie che ha vissuto sulla sua pelle».
All’inizio della sua ricerca verso la verità, non ha temuto di scoprire una mamma diversa, di intaccarne l’immagine?
«Indende “scoprire che tradiva mio padre”? No, nessuna paura. In un contesto del genere, se le cose con papà non andavano bene difficilmente avrebbe potuto parlargli e prendere un’altra strada. No, l’immagine che ho di lei è solo quella di vittima. Magari vittima di una banalità come un tradimento («Certo non è una banalità per la struttura sociale mafiosa», aggiunge Salvo Palazzolo, ndr)».
E con questo libro cosa rischia e cosa si propone?
«Avevo trovato un equilibrio nella mia vita e adesso invece dovrò ricostruirmi da zero. Ma spero che qualche vecchio amico di mamma si faccia vivo per darmi altri tasselli. E magari la magistratura potrà fare luce sul delitto: non ho scritto il libro per puntare il dito contro qualcuno ma se si scopre il “chi” e il “perché” avrei reso giustizia a mia madre».
Aggiunge Salvo Palazzolo: «Posso dire che uno degli ultimi atti del giudice Antonio Ingroia prima della sua partenza per il Guatemala è stata la riapertura delle indagini su Rosalia Pipitone. Chi è sospettato del delitto non è un killer di borgata ma Vincenzo Galatolo, oggi all’ergastolo per tanti omicidi e allora ai vertici di una cosca su incarico di Totò Riina, uno che ebbe un ruolo nella strage Chinnici, uno che fu custode del fondo da cui partirono i sicari di molti omicidi eccellenti. L’altro che i pentiti hanno indicato come killer fu ferito a morte in un conflitto a fuoco, e le sue ultime parole a un prete furono un’invocazione: “Dio potrà perdonarmi per quello che ho fatto?”».
"Se muoio sopravvivimi "è anche una bellissima poesia di Pablo Neruda
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
che desti la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud leva i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino il tuo riso o i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi in mia assenza come in una casa.
È una casa tanto grande l'assenza
che v'entrerai traverso i muri
e appenderai i quadri all'aria.
È una casa tanto trasparente l'assenza
che senza vita ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò un'altra volta.
Pablo Neruda
Annamaria
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