venerdì 16 ottobre 2015

L'UOMO "NORMALE" CHE UCCIDE



Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia
giuridica e investigativa a Caserta, traccia un profilo (criminale) dell'uomo normale capace di commettere un reato come l'uccisione della donna.

 “Abbiamo di fronte
una persona che, quando commette il reato, è
capace di intendere e volere. Solo nel 5%
delle perizie, la causa dell’omicidio
è riconducibile a una patologia”




-Professoressa Baldry, proviamo a tracciare i profili degli uomini che uccidono le donne? 

Da otto anni a questa parte c’è una media di una donna uccisa ogni tre giorni, che mediamente vengono uccise 120/130 donne l’anno. Dai dati che emergono non è possibile stabilire un rapporto causa-effetto, che se sapessimo i motivi potremmo fare prevenzione mirata: possiamo invece ragionare sui fattori di rischio, sulla base della presenza o meno di questi fattori di rischio, una casistica abbastanza conforme anche ai dati internazionali; nel libro Uomini che uccidono, analizzando i fascicoli giudiziari di 400 casi è emerso che nel 69% dei casi di femminicidi (a differenza di stalking, molestie, maltrattamenti e violenze sessuali che non sempre vengono denunciati, i casi di omicidio sono tutti noti alle cronache, con qualche eccezione, come le “scomparse”, e non si può parlare di omicidio in assenza di un cadavere), c’erano precedenti situazioni di violenza o di stalking. Ciò vuol dire che l’omicidio è figlio di un percorso persecutorio iniziato con maltrattamenti e violenza fisica o psicologica che si è protratta nel tempo.




Chi è questo soggetto che uccide?

Innanzitutto, nella stragrande maggioranza dei casi, è un soggetto normale dal punto di vista clinico, cioè una persona imputabile secondo l’accezione prevista dal nostro codice penale, una persona che nel momento in cui commette il reato è capace di intendere e di volere. Questo lo dico perché solo nel 5% dei casi in cui è stata richiesta una perizia, in genere in quelli più efferati, l’esito è stato positivo, nel senso di non imputabilità, e la causa dell’omicidio sarebbe da ricondurre a una patologia dell’individuo. C’è un leit motiv che collega la stragrande maggioranza dei femminicidi, a prescindere dal luogo geografico in cui avvengono: quasi tutti erano uomini con cui la donna aveva o aveva avuto una relazione più o meno lunga. 
Come ho detto più volte nel corso di Amore criminale [trasmissione tv di Rai 3, ndr], per i casi che abbiamo analizzato, ciò che caratterizza tutti questi casi è che l’uomo arriva ad uccidere quando non ha più il controllo, quando sente di perdere quella che non considera una persona degna di vivere ma una sua proprietà. E’ come se fosse un gesto estremo: da una parte rabbia e rancore, ma dall’altra un possesso totale con cui, io uomo, attraverso l’omicidio, sancisco per sempre che ho potere sulla tua vita, togliendotela. 



Cosa significa questa cosa, in termini culturali?

In passato, in questo Paese, abbiamo avuto una legge sul “delitto d’onore” che puniva gli assassini in maniera quasi simbolica. Eppure in quegli anni, non si consumavano tutti questi omicidi. 

Cos’è cambiato, rispetto ad allora? Ha a che fare con l’emancipazione della donna e con un ritardo culturale maschile?

E’ giusta la sua osservazione sull’articolo 587 del codice penale, soppresso nel 1981. Che però si applicava solo nei casi in cui la donna era colta il flagranza di adulterio e la pena per il marito omicida andava dai 3 ai 7 anni di carcere, assolutamente irrisoria. Lì era giustificato con la salvaguardia dell’onore, anche se il codice non lo diceva espressamente, ma lo inquadrava come un gesto d’impeto, dunque come attenuante, dovuto all’offesa ricevuta dall’uomo e che, in sostanza, riconduce all’onore violato. 
Il delitto d’onore in alcuni Paesi esiste ancora. Io sono stata due volte per lavoro in Afghanistan e lì è punito con due anni di carcere; lo stesso avviene in Palestina o in Turchia. E’ un fatto culturale. In Italia abbiamo avuto casi di delitti d’onore, di un padre che uccide la figlia perché vuole emanciparsi e seguire i costumi occidentali, distaccandosi dalla cultura originaria. Cultura, non religione: la religione non c’entra niente poiché si riconduce tutto a un concetto misogino, all’onore. Però, è il caso di ricordare che l’onore ha due accezioni: una positiva, l’altra negativa. L’onore inteso come rispettabilità per ciò che io faccio e gli altri mi riconoscono per le mie azioni e poi c’è l’altra faccia, quella negativa, di quando la donna esce da un ruolo prestabilito dalla società e dalla cultura subentrano l’ostilità e il sessismo, che non riconosce la donna se esce dal ruolo assegnatole: stai zitta, al tuo posto e non ti ribelli; se vieni meno a questo ruolo, ancora peggio se sei adultera o fai un figlio fuori dalla relazione, l’omicidio diventa un inevitabile mezzo di punizione per ripristinare quello che dev’essere il ruolo della donna. 
E qui arriviamo al punto che lei osservava: malgrado siamo in un’epoca in cui si parla di pari opportunità, che dovrebbero riguardare non solo il diritto ma anche la testa delle persone, perché bisogna cambiare questo atavico retaggio culturale maschile secondo il quale tutto era sancito dal fatto che nascevi uomo: dalle regole all’ istruzione al linguaggio, tutto era, è declinato al maschile. Ribellarsi a ciò non vuol dire per forza fare la femminista, ma ripristinare una uguaglianza nella differenza; però alcuni uomini, questa parità di opportunità, di diritti, di ruoli all’ interno della società e della coppia non la riescono a gestire.

Un fatto prevalentemente culturale, dunque?

Dietro gli omicidi spesso ci sono persone – senza volerle giustificare – che usano la violenza come strumento per prevalere su una persona che non riescono a gestire alla pari, con la quale non riescono a usare la comunicazione, la gestione del conflitto in maniera costruttiva, perché non riconoscono, sia a livello personale che culturale, il confronto come valore. E’ un po’ come i ragazzini a scuola: se tu fai il bulletto sei un gran fico, se invece non fai il bulletto sei una “femminuccia”. I genitori hanno questa responsabilità. E’ una cosa a 360 gradi, basta accendere la televisione. 
Per quanto uno possa sforzarsi nel non recepire questo tipo di messaggio, di condizionamento, bisogna riconoscere che ormai è a 360 gradi. Per cui, la cosa non mi stupisce più di tanto. Consideri che la metà dei femminicidi è concentrata in tre regioni: Veneto, Piemonte e Lombardia. 

Che vuol dire?

Probabilmente ciò non è dovuto al fatto che sono più popolose di altre tre messe insieme, ma al fatto che in queste regioni le donne hanno più possibilità di cambiare il loro modo di vivere. Io insegno a Caserta e lì vedo che molte mie studentesse, anche se il fidanzato non è il massimo e ti ha tirato due “pizze” in faccia, te lo porti fino all’altare e poi fino alla tomba. Mentre al Nord, vuoi perché c’è più opportunità di lavoro, vuoi perché c’è un retaggio anche culturale diverso, proprio a livello di stile di vita, purtroppo alcune donne che scelgono di sottrarsi alle sopraffazioni pagano con la vita il tentativo di sfuggire alle violenze. Ciò non vuol dire che la donna deve rimanere soggiogata alla modalità autoritaria, limitante e controllante del partner, ma che deve superare i condizionamenti, la paura delle ripercussioni, l’imbarazzo, la vergogna e avere il coraggio di denunciare. Benché non sia facile da farsi. 
Perché questi soggetti non è che con la denuncia diventano buoni e zitti e dicono “vabbè, forse ho esagerato”, no: diventano più pericolosi. Non tutti. E non tutti allo stesso modo, perché in alcuni casi un ammonimento, un provvedimento amministrativo è risultato essere efficace; però ci sono altri casi in cui l’uomo è accecato da un desiderio di vendetta, di punire la donna che ha osato denunciarlo, ha osato avere una dignità come persona: alcuni, come sappiamo, arrivano anche a uccidere.

Non è che tutto ciò, visto che accade prevalentemente all’interno o in conseguenza di rapporti di coppia, ha a che vedere con l’assenza di un alfabeto dei sentimenti?

Sicuramente, sì. Spesso si parla in questi di educazione alle emozioni, che è assente nei maschi più che nelle donne, perché le emozioni sono viste dal punto educativo-culturale come negative. Mentre noi donne, magari facendo un casino delle nostre emozioni, siamo meno giudicate nell’esprimerle – se vedi una donna piangere, non succede niente –, voi uomini non è che avete un quantitativo di liquido lacrimale inferiore al nostro, ma vi è stato condizionato, in maniera più o meno esplicita, a non dargli né voce né spazio né niente. Questo, di per sé, da solo non ha un gran significato, ma se inserito insieme ad altri meccanismi… Da psicologa le dico che, studiando i legami di attaccamento che un individuo stabilisce fin dai primi mesi di vita rispetto alla figura di riferimento – la madre, i genitori – se questo attaccamento non è accompagnato dalla capacità di costruire una identità altra dall’individuo di riferimento da cui sono dipendente quando sono piccolo, naturalmente, può portare, nel momento in cui creo delle relazioni in età adulta, all’incapacità, a causa del legame inficiato e dell’incapacità da parte del bambino di esprimere la rabbia. Finché sei piccolo puoi piangere, ma poi arrivi a una certa età, prescolare o alle elementari, dove avviene questa cosa qui. 
L’associazione di cui faccio parte, Differenza donna, il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza alle donne, ha mandato in onda, a Domenica in, un cortometraggio della regista Francesca Archibugi, Filippo ha picchiato Giulia. Un cortometraggio che parte da questo assunto: se un bambino picchia una bambina, al massimo gli si dice “ma dai, smettila”, mentre quando la bambina si ribella a questo Filippo è la fine del mondo, per insegnanti, genitori e quant’altri. Da li siamo partiti per poi fare parlare le donne che sono state nei centri antiviolenza, per fare capire che questa dinamica, questo fil rouge lo si ritrova in tutte le situazioni, dalla ragazzina che mette in atto certi comportamenti, a scuola, nel mondo del lavoro e, se ci pensiamo, nella società in generale. Per cui, l’omicidio è un po’ il punto d’arrivo negativo, l’indice del fallimento di una cultura dei sentimenti, perché non è sufficiente dire “Quell’omicidio è un gesto di rabbia”, poiché la rabbia ce l’abbiamo tutti. Sa quante volte avrei voluto strozzare qualcuno…

Penso sia successo a ciascuno di noi.

Appunto. Fa parte del nostro abc genetico, culturale, educativo. Il punto è la capacità e la volontà di gestire quel tipo di emozione, anche chiedendo aiuto quando si pensa di non farcela. Il problema è che spesso questi uomini – ci lavoro con gli uomini violenti – non riconoscono di essere portatori di una violenza distruttiva, negano, minimizzano. 
Magari un uomo violento fosse capace di riconoscere un suo problema, invece proietta e demanda tutto alla donna, che magari gli ha risposto male, piuttosto che non ha messo il sale nella minestra, piuttosto che non ha fatto stare zitti i bambini… E purtroppo noi donne in questo ci si sguazza, nel senso che accusi il colpo, incameri, giustifichi, minimizzi, vuoi cercare di cambiare e in questo mix esplosivo purtroppo qualcuna ci va nel mezzo, ci rimette la vita. Peraltro non c’è solo da preoccuparsi di quelle che vengono uccise. Nella prassi del lavoro quotidiano della Polizia è assolutamente evidente che uno degli interventi più frequenti, in qualunque Questura, è per liti in famiglia, all’interno della quale si può nascondere di tutto. Alcune magari non sono situazioni eclatanti, ma altre sono a rischio di escalation più grave.

Cosa si può fare, per prevenire?



Oltre che dire alle donne chiedete aiuto, chiamate il’1522, il numero verde dei centri antiviolenza, che mettono in rete i vari servizi (Tribunali, Forze dell’ordine, aiuto psicologico…) ma che danno anche la possibilità alla donna di entrare in contatto con quelle che sono le sue difficoltà, a riconoscere che quello che subisce non è un episodio ma una situazione di violenza, che tale va chiamata e non giustificata. Denunciare, anche se c’è una percezione di incapacità, di lentezza del nostro sistema giuridico, delle Forze dell’ordine, di affrontare questi problemi. Però c’è anche da dire che, in Italia, ormai da una decina d’anni, la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri stanno portando avanti una formazione ad hoc per questi tipi di problemi, anche per dotare il personale di strumenti per individuare quei casi a maggiore rischio. Il metodo S.A.R.A. (valutazione del rischio di recidiva), che è uno di quelli adottati dalla Polizia; è un metodo che consente l’individuazione di 15 fattori di rischio. Esiste anche un sito internet (www.sara-cesvis.org) dove le donne, attraverso la compilazione di un questionario del tutto anonimo, può capire il livello di rischio se vive una relazione in cui riconosce caratteri violenti, e le viene consigliato cosa fare in modo da non far passare in secondo piano situazioni che potrebbero essere prodromi di violenze future. 
(by Polizia e democrazia)
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Anna Costanza Baldry è docente di Psicologia giuridica e investigativa a Caserta, presso la facoltà di Psicologia della Seconda università degli studi di Napoli. Ha scritto numerosi saggi, diversi dei quali dedicati alle violenze sulle donne fra i quali: Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio (Franco Angeli, 2006; nuova edizione, 2011); Uomini che uccidono. Storie, moventi, investigazioni (Centro Scientifico editore, 2008), con Eugenio Ferraro, vice questore della Polizia di Stato; e, col magistrato Fabio Roia, Strategie efficaci per il contrasto ai maltrattamenti e allo stalking. Aspetti giuridici e crimonologici (Franco Angeli, 2011). Anna Baldry ha, fra l’altro, lavorato come consulente delle Nazioni Unite in Afghanistan e Palestina, fa parte dell’associazione “Differenza donna”, impegnata nel contrasto alle violenze di genere.

Annamaria



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