riflessioni di Lorenzo
Ancora si sente dire: “di destra” “di sinistra”. Ma davvero ci sono differenze basate su queste discriminanti di tipo ideologico?. Ma “che cos’è la sinistra”, “che cos’è la destra”? Una domanda che riprende quella del Signor G. di qualche anno fa. La macchina è di sinistra o di destra? E l’autobus? E l’aereo?
Il socialismo, il comunismo erano fede e speranza in una società diversa, giusta, con la classe “generale”, il proletariato, al comando per far scomparire tutte le disuguaglianze, le ingiustizie. Ma in quella direzione ci fu ad un certo punto, e non certo per colpa della “classe” dei lavoratori, un’involuzione statalista che fronteggiò a sua volta l’altra involuzione, quella del capitalismo senza regole, determinando un terreno tempestoso, quasi fra Scilla e Cariddi, una lotta fra ciechi e sordi.
Sicché fu gioco-forza che vincesse a sinistra, almeno in certe condizioni, la socialdemocrazia, che dette ai lavoratori quello che il capitalismo poteva dare senza correre il rischio di mandare tutto il sistema a gambe all’aria.
Non bastava? Certo, non bastava e bisognava andare avanti, raggiungere nuove conquiste, nuovi traguardi. Ma qui nasce il vero nodo da sciogliere, che continua a rimanere evanescente: il nuovo modello di sviluppo, di stato, da indicare come mèta, come traguardo.
Senza di questo non si va da nessuna parte. Il sindacato potrà uscire dalla stanza della concertazione lasciando da solo un capitalismo scalcagnato, senza, d’altra parte, essere in grado, da solo, malgrado tutti i conflitti che sarà capace di produrre, situazioni significativamente nuove, giuste, e vantaggiose per tutti.
E questo non in un solo paese, soprattutto se esso appartiene al novero dei più ricchi, ma portando “giustizia e libertà”, come si diceva una volta, in tutto il mondo degli sfruttati, diseredati.
Sono problemi che fanno tremare i polsi. Ma sono ineludibili.
Dunque, occorrerebbe mettere con i piedi per terra modelli diversi per sistemi diversi. Ma oggi quali diversità ci sono fra i modelli economico-sociali?
Giustamente si parla delle carenze del capitalismo, del neocapitalismo. Ma che cosa c’è di alternativo ad esso? Tutti dicono le stesse cose, vogliono le stesse cose, si comportano allo stesso modo e a volte viene il dubbio che il vero problema per molti consiste semplicemente nell’idea di mettersi al posto dell’avversario.
Non dovrebbe essere così. Oggi, ma non è sempre vero, dovrebbe essere scomparsa qualsiasi infatuazione statalistica, se non altro per mancanza di espliciti estimatori. Naturalmente non per i compiti fondamentali dello stato, come la scuola, la legge, le regole di vario tipo che assicurino giustizia, protezione ai poveri, ecc.
Ormai sembra pacifica l’adozione della forma aziendale, di impresa, per quasi tutte le attività economico-sociali. Ebbene, a sinistra qualcuno ha creato qualcosa di alternativo al modello d’impresa? L’unica alternativa fu, ma sono passati anni luce, la cooperazione. E dopo, nulla. C’è stata un po’ troppa acquiescenza al “tutto sindacato”? Quando in periodi di vacche grasse era possibile colloquiare e confliggere più facilmente con l’imprenditore privato? E strappargli parte del suo profitto? Non è una critica, s’intende, ma in periodi meno grassi sarà necessario approfondire. Capire quali ruoli alternativi si intende svolgere, quali novità immettere nel sistema.
Anche il mondo “privato” non è tutto lo stesso, ci sono imprese che puntano al profitto ed imprese che, pur private, svolgono attività non di lucro e socialmente utili.
Come vogliamo comportarci con queste e con quelle? E quale ruolo dovrebbero le une e le altre svolgere nel sistema?
Poi c’è Il neocapitalismo. Che informerebbe di sé l’intero stato quasi che tutte le colpe siano sue. Qualche anno fa qualcuno aveva fatto il panegirico dei manager rispetto ai capitalisti. L’innamoramento è finito salvo, forse, in certe zone del partito democratico. Ma questo neocapitalismo, che si ritiene fortissimo, per me ha le pezze ai piedi. Cerca alleanze più che nemici, solidarietà più che contestazioni. Per non morire, forse. Ma se muore il capitalismo con che cosa lo sostituiamo?
Ci sono, certo, le morti, gli incidenti in fabbrica. Inaccettabili. Esecrabili. Ma lo vogliamo dire che i morti sono spesso poveracci che non hanno niente a che fare con i capitalisti?
E vogliamo dire che l’esercito d’immigrati che vengono da noi “non può” essere trattato benissimo perché, non giustificando ovviamente il razzismo d’ogni genere ma offrendo da fratelli tutto quello che possiamo dare, tuttavia non possiamo accoglierlo tutto?
Dobbiamo recuperare un ruolo internazionale, che è il vero problema dei paesi ricchi, dobbiamo darci traguardi importanti, saper fare sacrifici, non per noi ma per i popoli più bisognosi del mondo, per l’ambiente, ecc, ma il discorso porterebbe assai lontano.
E’ certo più comodo protestare contro i tagli della Gelmini, ma certo non dovrebbe chiamare a questo compito chi voglia proporre modelli di sinistra diversi dal capitalismo. Vorrei chiudere con due altre considerazioni.
La prima. La zona grigia delle menti attanaglia tutti, purtroppo anche i giovani, che parlano una lingua comune, giovani di destra, di centro, di sinistra: gioco, discoteca, piercing, droga, ecc. un tutto indiscriminato. Li puoi chiamare alle manifestazioni ma non applicano profondità di ragionamento, sacrificio per una causa, impegno reale e visibile. Certo, ci sono delle eccezioni, ma siamo in un campo minato.
La seconda. Dispiace che nelle spire del neocapitalismo siano caduti e cadano anche lavoratori, pensionati. Tutti con le stesse idee “capitaliste” in testa: il gioco, il guadagno, il maggior interesse da strappare, la maggiore convenienza da perseguire. Si tratta di clienti fedeli del capitalismo, o del neocapitalismo, e sono tanti sì da rendere ardua una decisa azione di recupero.
Perché, se il breve termine può essere agitato anche dalle minoranze, il lungo termine è una chimera se non ci sono i grandi numeri capaci di dare la vittoria alle elezioni.
Io l'ho scritto per ragionarci su. E non per dare ricette come di solito si fa.
RispondiEliminaLorenzo,
RispondiEliminagrazie per l'invito a una riflessione così ampia, ma così importante.
Il tema dello sviluppo è un tema centrale già da qualche decennio, da quando soprattutto è emersa in tutta la sua drammatica evidenza la cecità di quanti hanno considerato quasi dogmatica l'equivalenza sviluppo= illimitata crescita economica.
Gli effetti di tale modello sono già da un pò sotto gli occhi di tutti(ambientali, sociali, economici, flussi migratori e povertà globale).
La realtà nella quale viviamo non rappresenta con tutti i suoi aspetti negativi, la realtà dell'umanità del 2010.
Noi(paesi ricchi) siamo solo una piccolissima percentuale di uomini, rispetto alla quasi totalità di esseri umani che a stento sopravvive sul nostro pianeta. Può chiamarsi questo sviluppo o progresso? Riflettiamo se non siamo troppo presi dalle nostre preoccupazioni frutto del surplus di ricchezza.
La mia vuole semplicemente essere una riflessione che si aggiunge a quella di Lorenzo, rappresentando soltanto un ulteriore contributo su un argomento che come diceva già lorenzo facilmente ci può portare lontano....
Flavio
Grazie, Flavio. Pensavo, leggendoti, agli alti strilli di molti nostri "che non arrivano alla fine del mese", mentre vanno coscienziosamente in vacanza e vuotano i negozi dei saldi, e giocano a tutte le lotterie, e hanno tutti gli stravizi possibili, compresi quelli di violentare, stuprare, ecc., mentre ai paesi veramente bisognosi di tutto non pensa nessuno. A quando un Piano straordinario mondiale per la povertà? Grazie ancora Flavio e un abbraccio. Non siamo noi purtroppo che abbiamo soluzioni concrete nelle mani.
RispondiEliminaEh si...la nostra è la socièta del paradosso; continuiamo a indebitarci pur di acquistare cose di scarsa utilità, lamentandoci poi a fine mese(come dici tu).
RispondiEliminaSiamo responsabili e complici di un sistema che è capace di attirare la nostra attenzione su pettegolezzi, liti e quant'altro di comparse più o meno famose (reality e altro), nuovi modelli deleteri, per le nuove generazioni, ma non è capace di sensibilizzare significativamente il nostro interesse sulle quotidiane tragedie umane locali e mondiali.
Sembra basti davvero poco per anestetizzarci e distrarci.
Flavio
Io dico che, singoli e gruppi, ci guardiamo troppo dentro. E quando ci rivolgiamo all'esterno guardiamo e non vediamo.
RispondiEliminaAnche per non vergognarci troppo.
Quanto all'Italia, Flavio, essendo un paese senza grandi mezzi primari, fondiamo il nostro successo e la nostra ricchezza sulla trasformazione e commercializzazione di prodotti altrui.
Da qui un successo precario basato, come giustamente dici, su "cose di niente".