Inghiottito nelle carceri iraniane per aver difeso con tutte le sue  forze l’innocenza della madre e averne parlato con i giornali  occidentali. Del figlio ventiduenne di Sakineh Ashtiani, la donna  condannata alla lapidazione, non si hanno più notizie da domenica 10  ottobre, quando è stato arrestato insieme al suo avvocato Houtan Kian e a  due giornalisti tedeschi che lo stavano intervistando. Ieri è arrivata  una segnalazione che sarebbe stato torturato e forse trasferito nello  stesso carcere dove è prigioniera anche la madre, a Tabriz. Si tratta di  informazioni raccolte attraverso «radio carcere» e dunque provenienti  da fonti riservate, voci raccolte da Mina Ahadi, portavoce in Germania  dell’International Committee Against stoning. 
La donna, una  iraniana esule in Germania, è colei che aveva organizzato l’incontro con  i due reporter tedeschi e a distanza faceva da interprete tra il  giovane Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh, accompagnato dal suo  avvocato, e i giornalisti. «Alla terza domanda - racconta sul sito  dell’Icas - mi sono accorta che c’era qualcosa di strano e ho chiesto  cosa stesse succedendo. Poi ho capito che li stavano arrestando tutti e  quattro». La signora Ahadi è certa che fin dai primi giorni di  detenzione il figlio di Sakineh sia stato sottoposto a una forte  pressione dai suoi carcerieri. «I familiari non hanno avuto più notizie  di lui. Abbiamo provato a far avere a Sajjad una difesa legale ma ci  hanno spiegato che gli avvocati non potevano né rappresentarlo né  aiutarlo». Le ultime rivelazioni raccolte da fonti che restano anonime  risalgono a martedì scorso, dicono che l’avvocato Kian è stato  trasferito nella prigione di Tabriz, dove sarebbero reclusi anche i due  giornalisti di nazionalità tedesca. Forse anche Sajjad. All’Icas risulta  che l’avvocato Kian sia stato «picchiato e molestato» dietro le sbarre.  Ma che le attenzioni più pesanti si siano concentrate soprattutto sul  figlio della donna condannata per adulterio e concorso in omicidio del  marito. A tutti e due viene imputato in particolare il rapporto diretto  con la stampa occidentale, tra cui quella italiana, attraverso la quale  Sajjad negli ultimi giorni prima del suo arresto aveva chiesto per sé e  per la sorella di potersi rifugiare in Italia. La pressione si era fatta  forte, aveva paura di ritorsioni. E tutto era sembrato precipitare già  il giorno prima dell’ultima, interrotta, intervista. Sabato 9 ottobre  l’avvocato Kian recandosi in Tribunale aveva scoperto che il caso  Sakineh gli era stato tolto. Aveva chiesto se il fascicolo fosse stato  affidato ad un altro giudice ma non aveva ottenuto risposta. 
Appelli per la liberazione
Ora  il Comitato contro la lapidazione da Berlino si appella alle  istituzioni e alle organizzazioni che hanno a cuore i diritti umani  affinché rilancino la campagna per salvare Sakineh e la estendano adesso  anche al figlio, all’avvocato e ai due reporter tedeschi, «colpevoli  soltanto di aver cercato la verità». La richiesta è che «vengano  rilasciati immediatamente e senza condizioni». 
La cancelliera Angela  Merkel ha chiesto fin da subito la liberazione dei due giornalisti  tedeschi che al momento sarebbero accusati di aver intessuto «legami con  elementi controrivoluzionari» iraniani residenti in Germania,  riferimentosi evidente proprio a Mina Ahadi e al Comitato contro la  lapidazione. Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha fatto  sapere che sta facendo il possibile per far tornare i due in Germania  il più presto possibile. Il vice ministro degli Esteri iraniano Ali  Ahani due giorni fa era a Roma per un convegno sui rapporti bilaterali  Iran-Italia e a proposito di Sakineh ha ribadito che Teheran non accetta  intromissioni. «Il processo è in corso e presenta molti punto oscuri»,  ha detto aggiungendo che l’Iran «accoglie con favore ogni invito al  dialogo sui diritti dell'uomo ma non accetta doppi standard, nè  discriminazioni». Dal governo di Roma non è arrivata alcuna  dichiarazione né allora né dopo a favore del rilascio di Sajjad e di  Kian. Mica è un «figlio di Mubarak»
Sakineh
Parla la giornalista che ha condiviso la cella
Shahnaz Gholami
Carcere di Tabriz, Iran. In quattro camerate, pochi metri quadrati sudici e senza luce, sono rinchiuse duecento donne, divise a seconda del reato per cui sono state arrestate. Tra di loro, c'é Sakineh Mohammadi-Ashtiani, accusata di adulterio e complicità nell'omicidio del marito. Si proclama innocente ma, un giorno, le autorità le fanno firmare un documento redatto in farsi, lingua a lei totalmente sconosciuta: è la sua confessione, quella che le fa rischiare a lungo la condanna alla lapidazione. Shahnaz Gholami, giornalista iraniana che ora vive in Francia, per 99 giorni, tra il 2006 e il 2007, ha condiviso la stessa cella di Sakineh. E, in un incontro con l'ANSA a margine di un convegno, a Pordenone, sulla discriminazione femminile in Iran, ha raccontato la tragedia della sua compagna di prigionia: "Quando ha capito, Sakineh è svenuta dalla disperazione".
La Gholami è  certa della sua innocenza. "Non ha mai accettato la tesi dell'accusa e  se lo ha fatto è perché è stata torturata", ha spiegato l'ex  prigioniera. Poi, in tribunale, una mattina, le hanno fatto leggere la  sua confessione, in farsi. 
"Sakineh è quasi analfabeta e parla  solo l'azero, ha firmato senza capire nulla. Solo dopo, la direttrice  del carcere le ha rivelato cosa comportava quella firma, facendola  piombare nella diperazione", è il ricordo della Gholami. Fino ad allora,  Sakineh "si era distinta per il suo ottimismo, per la sua voglia di  vivere. Era convinta di farcela, anche perché, secondo la sua versione,  non aveva mai tradito il marito. E non lo aveva ucciso: l'uomo era morto  accidentalmente, fulminato mentre faceva la doccia". 
La  Gholami, sfruttando un permesso accordatole per il suo cattivo stato di  salute, è fuggita dall'Iran, rifugiandosi prima in Iraq, poi in Turchia,  infine in Francia. Ma ha trascorso sei anni nella prigione di Tabriz. 
"Eravamo  duecento, io ero nella stanza assegnata alle donne accusate dei reati  più gravi. Trenta di loro, erano già state condannate a morte". Le  detenute erano isolate, spesso sottoposte a torture finalizzate ad  "ottenere confessioni di reati inesistenti". Dall' undici agosto scorso,  non si hanno più notizie di Sakineh. E la Gholami ammette di essere  "molto preoccupata. Già tre anni fa era molto dimagrita ed era stordita  dai sonniferi". 
Da tre settimane, in carcere, ci sono anche  Sajad Qaderzadeh e Javid Hutan Kian, figlio e avvocato di Sakineh.  "Entrambi sono stati picchiati. Kian, forse, sarà processato la prossima  settimana. Sajad è ancora sotto tortura", ha spiegato nel corso del  convegno la presidente del Comitato contro la lapidazione Mina Ahadi,  sottolineando che "in Iran nessun legale ora è disposto a difendere  Sajad, per timore di essere arrestato". 
  


 
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