MARIA |
Ad
una persona come me, amante del cinema, non possono sfuggire i particolari,
soprattutto quelli che in alcuni film divengono elementi identificativi,
restando nella memoria collettiva. Ed è stato proprio un elemento versatile
come pochi che ha attratto la mia curiosità, anche perché sono venuta a
conoscenza di una serie di iniziative correlate ad una mostra di cui si è vista
una interessante anteprima a Milano nel 2011, ripresa e ampliata come prima
tappa di una tournée nazionale ed europea. E’ stato il cappello il protagonista
alla Triennale di Milano del 2011 di -Il
cinema con il cappello: Borsalino e altre storie- e ad Alessandria, al Museo del Cappello
Borsalino, una serie di eventi intitolata -Tanto di cappello– da novembre 2012
a ottobre 2013.
Ogni
iniziativa del genere si fonda su una forte motivazione : perché una mostra
proprio sul cappello al cinema, e non sugli occhiali, le scarpe o le cravatte?
Nessun altro indumento ha tante storie da raccontare: lo usano uomini e donne.
Il cappello maschera, identifica, è uno status symbol e una componente
mitologica: John Wayne senza cappello è inconcepibile, così come i Blues
Brothers, ma anche una diva come Audrey Hepburn amava i cappelli, fino agli
eccessi di “My Fair Lady”. Ma il cappello è anche l'indumento da cui ci si
separa più facilmente: un colpo di vento lo fa volare, lo si lancia in alto per
la gioia, lo si calpesta per la rabbia!
La mostra -Il cinema con il cappello- a Milano aveva accolto i visitatori
con un montaggio di personaggi cinematografici che si tolgono il copricapo per
salutare, culminando con un'installazione di decine di cappelli che penzolano
dal soffitto come in un quadro di Magritte, mentre sullo schermo volavano i
cappelli minacciosi dei gangster di “Crocevia della morte” dei fratelli Coen e
quelli gioiosi delle mondine di “Riso amaro”.
Un lungo lavoro ha portato alla messa in opera di questo interessante
progetto : sono state visionate 800 pellicole per poterne estrarre i frammenti
più significativi (circa 400!) : ne è venuta fuori una particolare storia del
cinema e dell'immaginario. La
mostra di Alessandria, narra non solo la storia del classico cappello maschile
in feltro, che ancora oggi porta il nome del fondatore Giuseppe Borsalino, ma
anche tutte le evoluzioni di cui il copricapo è stato ed è protagonista, nella
vita come nel cinema.
E’
stato Arturo Brachetti, simbolo della fantasia e dello stile italiano nel
mondo, ad inaugurare il ricco calendario di eventi ispirati allo storico
rapporto tra la città di Alessandria e Borsalino, fabbrica, ma anche icona,
mito cinematografico e di costume : Alessandria e Borsalino, una storia
d’amore, un percorso tra immagini, teatro e gioco per esplorare il ruolo del
cappello nel cinema e nell’arte.
Con
questo incontro inaugurale Arturo Brachetti, partendo dal suo rapporto con il
cappello, ha mostrato come una semplice “tesa” nera, vuota nel centro, possa
con fantasia e creatività prendere la forma di infiniti copricapi e personaggi,
insieme semplici e straordinari.
Il percorso espositivo si suddivide in vari settori. Si
comincia con “L’identità” ovvero Il cinema con il cappello, dove si viene
accolti da un grande cilindro multimediale dove scorrono alcune sequenze
storiche di più film, fra cui il dialogo di Peter Falk ne “Il Cielo Sopra
Berlino”
di Wim Wenders in cui, attraverso la ricerca del cappello giusto, si
racconta il cambio di identità sotteso a ogni cambio di copricapo: gangster,
borghese, eccessivo, comico.
“Il cappello che emoziona”, gioca invece sulle diverse emozioni suscitate dal copricapo nelle sue diverse forme: riso, pianto, seduzione e paura . . . e così, attraverso diverse sale, guidato da suoni e rumori, il visitatore incontra il cappello che fa ridere, il cappello che fa piangere, il cappello che seduce, il cappello che fa paura. “Scappellamenti e gesti”: il saluto, la riverenza, la felicità, il ringraziamento ed il rispetto: tutti i significati dei gesti legati al cappello.
Si continua con “La giostra dei nomi”: dal Borsalino, nome proprio divenuto sinonimo di cappello classico maschile, al basco, all’elmo, al casco, alla coppola, al turbante, alla bombetta, al colbacco, berretto, feluca. Una lunga lista cui corrispondono infinite e curiose forme di cappelli, raccontate attraverso un’installazione multimediale.
Diventano protagonisti i Borsalino più noti nella storia del cinema : ecco quindi i famosi film Borsalino (1970) e Borsalino & co (1974), di Jacques Deray con Jean Paul Belmondo e Alain Delon, in cui Borsalino è stata la prima marca che ha avuto l'onore di diventare titolo, senza altre parole.
“Il cappello che emoziona”, gioca invece sulle diverse emozioni suscitate dal copricapo nelle sue diverse forme: riso, pianto, seduzione e paura . . . e così, attraverso diverse sale, guidato da suoni e rumori, il visitatore incontra il cappello che fa ridere, il cappello che fa piangere, il cappello che seduce, il cappello che fa paura. “Scappellamenti e gesti”: il saluto, la riverenza, la felicità, il ringraziamento ed il rispetto: tutti i significati dei gesti legati al cappello.
Si continua con “La giostra dei nomi”: dal Borsalino, nome proprio divenuto sinonimo di cappello classico maschile, al basco, all’elmo, al casco, alla coppola, al turbante, alla bombetta, al colbacco, berretto, feluca. Una lunga lista cui corrispondono infinite e curiose forme di cappelli, raccontate attraverso un’installazione multimediale.
Diventano protagonisti i Borsalino più noti nella storia del cinema : ecco quindi i famosi film Borsalino (1970) e Borsalino & co (1974), di Jacques Deray con Jean Paul Belmondo e Alain Delon, in cui Borsalino è stata la prima marca che ha avuto l'onore di diventare titolo, senza altre parole.
Ma, più che ai
simpatici gangster anni Trenta, il curatore della mostra, è legato al Borsalino
che indossa il protagonista del “Matrimonio di Maria Braun” di Fassbinder: non
se lo toglie nemmeno per fare l'amore per la prima volta con sua moglie, e per
una fatalità del caso, lo indossa anche quando muore . . .
Il
cappello non rappresenta un semplice accessorio, ma definisce i ruoli, le professioni,
le classi, mettendo in evidenza la corrispondenza fra la gestualità rituale ed
i personaggi dei film che nessun altro capo di abbigliamento permette: lo si
tocca, lo si alza e lo si usa come antistress.
È l'immortale Humphrey Bogart a
essere debitore del suo inseparabile Borsalino o è il cappello della
leggendaria casa alessandrina a dovere tutto al mito di “Casablanca”?
In molti film il cappello viene usato dagli
assassini per nascondere il proprio volto.
Al
cinema il cappello crea mode e tendenze: da James Dean che negli anni Cinquanta
lancia il grande cappello con falda rialzata che campeggiava nella locandina de
“Il Gigante”, al colbacco che con “Il
dottor Zivago” entra a far parte del vestiario occidentale, al berretto di lana
de “Il cacciatore” a quello di “Rocky” quando, dismessi i guantoni, vaga per le
strade di Philadelphia. Un articolo, quest'ultimo, che non a caso diventa il
copricapo popolare degli anni Settanta.
Senza
dimenticare che grandi registi hanno depositato la propria icona in un'immagine
col cappello: si può immaginare Fellini senza il suo cappello? e Sergio Leone.
. . e Orson Welles . . .
Una
raccolta di foto, cimeli e materiale interattivo di vario genere che indaga il
binomio centenario tra cinema e cappello, un tema dalle innumerevoli possibili
declinazioni: cosa sarebbe Indiana Jones senza il suo cappello a larghe falde?
O Charlot senza la sua bombetta?
Si scopre, per esempio,
che l' “Elephant Man” di David Lynch, pure se ha tutto il volto coperto da un
cappuccio, non si separa mai da un berretto, il suo unico e ultimo appiglio
all'umanità.
Il
cappello è un dettaglio inquietante : quanti serial killer lo portano, da Peter
Lorre, mostro di Düsseldorf all’inquietante Freddy Krueger, nella serie
«Nightmare», ma anche uno strumento comico inesauribile con Chaplin, Buster Keaton e i Fratelli Marx. E
che dire dei diversi modi in cui lo utilizza “Indiana Jones” : stili diversi
per personaggi diversi.
Diventa un'arma di seduzione e in questo senso, sono soprattutto le
donne a usarlo: nel cinema il cappello racconta efficacemente e
silenziosamente, genera riconoscimento e identità, sollecita trasformazioni: in
“Sabrina” il cappello segna la trasformazione parigina di Audrey Hepburn in
donna di classe,
i cappelli di Greta Garbo in “Ninotchka” sono addirittura segni
precursori della fine del comunismo. Marlene Dietrich nell'”Angelo azzurro”,
Magali Noël alias Gradisca in “Amarcord”,
Charlotte Rampling in versione nazi
in “Portiere di notte”,
Lena Olin in “L'insostenibile leggerezza dell'essere”,
Maria Schneider in “Ultimo tango a Parigi”. È
la prova che, come evidenziatore del corpo nudo, il cappello turba più della
banale
giarrettiera!
Maria , l'ho trovata in archivio...versione : "mi riparo dal sole siculo".... |
Mi
fermo qui e vado a cercarmi . . . un
cappello, magari alla Marlene Dietrich e . . . Hut . . .o se volete, chapeau . . . tanto di
cappello !!
Maria... a dopo |
Interessante. E informato. Io, che sono strombolo, non amo i cappelli ma le coppole.
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