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sabato 17 ottobre 2015
COACH DELLE ABITUDINI
Quando non comprendiamo qualcosa, spesso pensiamo che sia sbagliato. E' difficile comprendere persone completamente diverse da noi, ad esempio, o tradizioni opposte, lontane dal nostro modo di essere. Dire "è sbagliato" però significa chiudere la propria mente, la soluzione più facile e veloce per andare sempre a sbattere contro lo stesso muro per tutta la vita, cercando di raggiungere traguardi che non possiamo raggiungere con il pensiero, le abitudini mentali, le strategie che abbiamo al momento.
Se qualcosa non lo comprendi, vai più a fondo. Fai domande, esploralo: potresti imparare qualcosa di importante per la tua crescita e il raggiungimento dei tuoi obiettivi.
Buona lezione!
Annamaria
venerdì 16 ottobre 2015
PORTA LA TAGLIA 38 MA GLI STILISTI LA VOGLIONO PIU' MAGRA
Gli stilisti , nel 90%dei casi , mangiano come maiali e ingrassano sia fisicamente che di conto in banca, sulle spalle di queste povere ragazze violentate psicologicamente , magre sulla soglia dell'anoressia. Io li denuncerei tutti : spingere una persona , non di costituzione magra, a dimagrire in modo innaturale rischiando di ammalarsi puo' essere reato! Complimenti a questa ragazza!
Spero non resti una contro tutti: ci saranno un sacco di ragazzine che saranno disposte a rendersi scheletriche pur di sfondare! È la testa di chi fa richieste così assurde a dover cambiare.....si! Mi domando quando.
Charli Howard |
Charli Howard, modella 23enne di Londra, porta la 6, vale a dire la 38. E’ magra: chi riesce a indossare abiti di quella misura non è di certo sovrappeso. Eppure l’agenzia di modelle per cui lavora le ha chiesto di dimagrire: dovrebbe perdere 3 centimetri sui fianchi, se vuole mantenere il suo posto.
Ma Charli, abituata ai sacrifici, questa volta non ci sta, e su Facebook lancia un messaggio alla sua agenzia e all’industria della moda in generale: «Un vaff… alla mia (ormai ex) agenzia di modelle, che dice che chi porta la taglia 6 è “troppo grassa” e “fuori forma” per lavorare nel mondo della moda. Io non permetterò più di dirmi che cosa c'è di sbagliato nel mio aspetto e che cosa ho bisogno di cambiare per essere “bella”, nella speranza di trovare un lavoro».
«Più ci costringete a perdere peso, più gli stilisti realizzeranno vestiti che si adattino alle vostre misure, e più le giovani ragazze si ammaleranno. Non è più un’immagine che voglio rappresentare».
E ancora: «Mi rifiuto di sentirmi in colpa perché non raggiungo i vostri ridicoli e inottenibili standard di bellezza mentre voi state seduti tutto il giorno alla scrivania, divorando torte e biscotti e criticando me e le mie amiche per il nostro aspetto fisico».
Non si può tagliare le ossa dei fianchi solo per indossare gli abiti dell’agenzia, spiega la modella. «Ho combattuto la mia natura per tanto tempo, perché pensavo che le mie forme fossero troppo abbondanti - continua Charli -, ma adesso ho iniziato ad amare le mie forme. La mia salute mentale e fisica è più importante di un numero su una scala».
Agnes Hedengård |
Una storia che somiglia molto alla denuncia via video di Agnes Hedengård, statuaria modella diciannovenne svedese, indice di massa corporea 17,5. Eppure considerata «troppo grassa» per continuare a calcare le passerelle. by VF
Annamaria
L'UOMO "NORMALE" CHE UCCIDE
Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia
giuridica e investigativa a Caserta, traccia un profilo (criminale) dell'uomo normale capace di commettere un reato come l'uccisione della donna.
“Abbiamo di fronte
una persona che, quando commette il reato, è
capace di intendere e volere. Solo nel 5%
delle perizie, la causa dell’omicidio
è riconducibile a una patologia”
-Professoressa Baldry, proviamo a tracciare i profili degli uomini che uccidono le donne?
Da otto anni a questa parte c’è una media di una donna uccisa ogni tre giorni, che mediamente vengono uccise 120/130 donne l’anno. Dai dati che emergono non è possibile stabilire un rapporto causa-effetto, che se sapessimo i motivi potremmo fare prevenzione mirata: possiamo invece ragionare sui fattori di rischio, sulla base della presenza o meno di questi fattori di rischio, una casistica abbastanza conforme anche ai dati internazionali; nel libro Uomini che uccidono, analizzando i fascicoli giudiziari di 400 casi è emerso che nel 69% dei casi di femminicidi (a differenza di stalking, molestie, maltrattamenti e violenze sessuali che non sempre vengono denunciati, i casi di omicidio sono tutti noti alle cronache, con qualche eccezione, come le “scomparse”, e non si può parlare di omicidio in assenza di un cadavere), c’erano precedenti situazioni di violenza o di stalking. Ciò vuol dire che l’omicidio è figlio di un percorso persecutorio iniziato con maltrattamenti e violenza fisica o psicologica che si è protratta nel tempo.
Chi è questo soggetto che uccide?
Innanzitutto, nella stragrande maggioranza dei casi, è un soggetto normale dal punto di vista clinico, cioè una persona imputabile secondo l’accezione prevista dal nostro codice penale, una persona che nel momento in cui commette il reato è capace di intendere e di volere. Questo lo dico perché solo nel 5% dei casi in cui è stata richiesta una perizia, in genere in quelli più efferati, l’esito è stato positivo, nel senso di non imputabilità, e la causa dell’omicidio sarebbe da ricondurre a una patologia dell’individuo. C’è un leit motiv che collega la stragrande maggioranza dei femminicidi, a prescindere dal luogo geografico in cui avvengono: quasi tutti erano uomini con cui la donna aveva o aveva avuto una relazione più o meno lunga.
Come ho detto più volte nel corso di Amore criminale [trasmissione tv di Rai 3, ndr], per i casi che abbiamo analizzato, ciò che caratterizza tutti questi casi è che l’uomo arriva ad uccidere quando non ha più il controllo, quando sente di perdere quella che non considera una persona degna di vivere ma una sua proprietà. E’ come se fosse un gesto estremo: da una parte rabbia e rancore, ma dall’altra un possesso totale con cui, io uomo, attraverso l’omicidio, sancisco per sempre che ho potere sulla tua vita, togliendotela.
Cosa significa questa cosa, in termini culturali?
In passato, in questo Paese, abbiamo avuto una legge sul “delitto d’onore” che puniva gli assassini in maniera quasi simbolica. Eppure in quegli anni, non si consumavano tutti questi omicidi.
Cos’è cambiato, rispetto ad allora? Ha a che fare con l’emancipazione della donna e con un ritardo culturale maschile?
E’ giusta la sua osservazione sull’articolo 587 del codice penale, soppresso nel 1981. Che però si applicava solo nei casi in cui la donna era colta il flagranza di adulterio e la pena per il marito omicida andava dai 3 ai 7 anni di carcere, assolutamente irrisoria. Lì era giustificato con la salvaguardia dell’onore, anche se il codice non lo diceva espressamente, ma lo inquadrava come un gesto d’impeto, dunque come attenuante, dovuto all’offesa ricevuta dall’uomo e che, in sostanza, riconduce all’onore violato.
Il delitto d’onore in alcuni Paesi esiste ancora. Io sono stata due volte per lavoro in Afghanistan e lì è punito con due anni di carcere; lo stesso avviene in Palestina o in Turchia. E’ un fatto culturale. In Italia abbiamo avuto casi di delitti d’onore, di un padre che uccide la figlia perché vuole emanciparsi e seguire i costumi occidentali, distaccandosi dalla cultura originaria. Cultura, non religione: la religione non c’entra niente poiché si riconduce tutto a un concetto misogino, all’onore. Però, è il caso di ricordare che l’onore ha due accezioni: una positiva, l’altra negativa. L’onore inteso come rispettabilità per ciò che io faccio e gli altri mi riconoscono per le mie azioni e poi c’è l’altra faccia, quella negativa, di quando la donna esce da un ruolo prestabilito dalla società e dalla cultura subentrano l’ostilità e il sessismo, che non riconosce la donna se esce dal ruolo assegnatole: stai zitta, al tuo posto e non ti ribelli; se vieni meno a questo ruolo, ancora peggio se sei adultera o fai un figlio fuori dalla relazione, l’omicidio diventa un inevitabile mezzo di punizione per ripristinare quello che dev’essere il ruolo della donna.
E qui arriviamo al punto che lei osservava: malgrado siamo in un’epoca in cui si parla di pari opportunità, che dovrebbero riguardare non solo il diritto ma anche la testa delle persone, perché bisogna cambiare questo atavico retaggio culturale maschile secondo il quale tutto era sancito dal fatto che nascevi uomo: dalle regole all’ istruzione al linguaggio, tutto era, è declinato al maschile. Ribellarsi a ciò non vuol dire per forza fare la femminista, ma ripristinare una uguaglianza nella differenza; però alcuni uomini, questa parità di opportunità, di diritti, di ruoli all’ interno della società e della coppia non la riescono a gestire.
Un fatto prevalentemente culturale, dunque?
Dietro gli omicidi spesso ci sono persone – senza volerle giustificare – che usano la violenza come strumento per prevalere su una persona che non riescono a gestire alla pari, con la quale non riescono a usare la comunicazione, la gestione del conflitto in maniera costruttiva, perché non riconoscono, sia a livello personale che culturale, il confronto come valore. E’ un po’ come i ragazzini a scuola: se tu fai il bulletto sei un gran fico, se invece non fai il bulletto sei una “femminuccia”. I genitori hanno questa responsabilità. E’ una cosa a 360 gradi, basta accendere la televisione.
Per quanto uno possa sforzarsi nel non recepire questo tipo di messaggio, di condizionamento, bisogna riconoscere che ormai è a 360 gradi. Per cui, la cosa non mi stupisce più di tanto. Consideri che la metà dei femminicidi è concentrata in tre regioni: Veneto, Piemonte e Lombardia.
Che vuol dire?
Probabilmente ciò non è dovuto al fatto che sono più popolose di altre tre messe insieme, ma al fatto che in queste regioni le donne hanno più possibilità di cambiare il loro modo di vivere. Io insegno a Caserta e lì vedo che molte mie studentesse, anche se il fidanzato non è il massimo e ti ha tirato due “pizze” in faccia, te lo porti fino all’altare e poi fino alla tomba. Mentre al Nord, vuoi perché c’è più opportunità di lavoro, vuoi perché c’è un retaggio anche culturale diverso, proprio a livello di stile di vita, purtroppo alcune donne che scelgono di sottrarsi alle sopraffazioni pagano con la vita il tentativo di sfuggire alle violenze. Ciò non vuol dire che la donna deve rimanere soggiogata alla modalità autoritaria, limitante e controllante del partner, ma che deve superare i condizionamenti, la paura delle ripercussioni, l’imbarazzo, la vergogna e avere il coraggio di denunciare. Benché non sia facile da farsi.
Perché questi soggetti non è che con la denuncia diventano buoni e zitti e dicono “vabbè, forse ho esagerato”, no: diventano più pericolosi. Non tutti. E non tutti allo stesso modo, perché in alcuni casi un ammonimento, un provvedimento amministrativo è risultato essere efficace; però ci sono altri casi in cui l’uomo è accecato da un desiderio di vendetta, di punire la donna che ha osato denunciarlo, ha osato avere una dignità come persona: alcuni, come sappiamo, arrivano anche a uccidere.
Non è che tutto ciò, visto che accade prevalentemente all’interno o in conseguenza di rapporti di coppia, ha a che vedere con l’assenza di un alfabeto dei sentimenti?
Sicuramente, sì. Spesso si parla in questi di educazione alle emozioni, che è assente nei maschi più che nelle donne, perché le emozioni sono viste dal punto educativo-culturale come negative. Mentre noi donne, magari facendo un casino delle nostre emozioni, siamo meno giudicate nell’esprimerle – se vedi una donna piangere, non succede niente –, voi uomini non è che avete un quantitativo di liquido lacrimale inferiore al nostro, ma vi è stato condizionato, in maniera più o meno esplicita, a non dargli né voce né spazio né niente. Questo, di per sé, da solo non ha un gran significato, ma se inserito insieme ad altri meccanismi… Da psicologa le dico che, studiando i legami di attaccamento che un individuo stabilisce fin dai primi mesi di vita rispetto alla figura di riferimento – la madre, i genitori – se questo attaccamento non è accompagnato dalla capacità di costruire una identità altra dall’individuo di riferimento da cui sono dipendente quando sono piccolo, naturalmente, può portare, nel momento in cui creo delle relazioni in età adulta, all’incapacità, a causa del legame inficiato e dell’incapacità da parte del bambino di esprimere la rabbia. Finché sei piccolo puoi piangere, ma poi arrivi a una certa età, prescolare o alle elementari, dove avviene questa cosa qui.
L’associazione di cui faccio parte, Differenza donna, il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza alle donne, ha mandato in onda, a Domenica in, un cortometraggio della regista Francesca Archibugi, Filippo ha picchiato Giulia. Un cortometraggio che parte da questo assunto: se un bambino picchia una bambina, al massimo gli si dice “ma dai, smettila”, mentre quando la bambina si ribella a questo Filippo è la fine del mondo, per insegnanti, genitori e quant’altri. Da li siamo partiti per poi fare parlare le donne che sono state nei centri antiviolenza, per fare capire che questa dinamica, questo fil rouge lo si ritrova in tutte le situazioni, dalla ragazzina che mette in atto certi comportamenti, a scuola, nel mondo del lavoro e, se ci pensiamo, nella società in generale. Per cui, l’omicidio è un po’ il punto d’arrivo negativo, l’indice del fallimento di una cultura dei sentimenti, perché non è sufficiente dire “Quell’omicidio è un gesto di rabbia”, poiché la rabbia ce l’abbiamo tutti. Sa quante volte avrei voluto strozzare qualcuno…
Penso sia successo a ciascuno di noi.
Appunto. Fa parte del nostro abc genetico, culturale, educativo. Il punto è la capacità e la volontà di gestire quel tipo di emozione, anche chiedendo aiuto quando si pensa di non farcela. Il problema è che spesso questi uomini – ci lavoro con gli uomini violenti – non riconoscono di essere portatori di una violenza distruttiva, negano, minimizzano.
Magari un uomo violento fosse capace di riconoscere un suo problema, invece proietta e demanda tutto alla donna, che magari gli ha risposto male, piuttosto che non ha messo il sale nella minestra, piuttosto che non ha fatto stare zitti i bambini… E purtroppo noi donne in questo ci si sguazza, nel senso che accusi il colpo, incameri, giustifichi, minimizzi, vuoi cercare di cambiare e in questo mix esplosivo purtroppo qualcuna ci va nel mezzo, ci rimette la vita. Peraltro non c’è solo da preoccuparsi di quelle che vengono uccise. Nella prassi del lavoro quotidiano della Polizia è assolutamente evidente che uno degli interventi più frequenti, in qualunque Questura, è per liti in famiglia, all’interno della quale si può nascondere di tutto. Alcune magari non sono situazioni eclatanti, ma altre sono a rischio di escalation più grave.
Cosa si può fare, per prevenire?
Oltre che dire alle donne chiedete aiuto, chiamate il’1522, il numero verde dei centri antiviolenza, che mettono in rete i vari servizi (Tribunali, Forze dell’ordine, aiuto psicologico…) ma che danno anche la possibilità alla donna di entrare in contatto con quelle che sono le sue difficoltà, a riconoscere che quello che subisce non è un episodio ma una situazione di violenza, che tale va chiamata e non giustificata. Denunciare, anche se c’è una percezione di incapacità, di lentezza del nostro sistema giuridico, delle Forze dell’ordine, di affrontare questi problemi. Però c’è anche da dire che, in Italia, ormai da una decina d’anni, la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri stanno portando avanti una formazione ad hoc per questi tipi di problemi, anche per dotare il personale di strumenti per individuare quei casi a maggiore rischio. Il metodo S.A.R.A. (valutazione del rischio di recidiva), che è uno di quelli adottati dalla Polizia; è un metodo che consente l’individuazione di 15 fattori di rischio. Esiste anche un sito internet (www.sara-cesvis.org) dove le donne, attraverso la compilazione di un questionario del tutto anonimo, può capire il livello di rischio se vive una relazione in cui riconosce caratteri violenti, e le viene consigliato cosa fare in modo da non far passare in secondo piano situazioni che potrebbero essere prodromi di violenze future.
(by Polizia e democrazia)
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Anna Costanza Baldry è docente di Psicologia giuridica e investigativa a Caserta, presso la facoltà di Psicologia della Seconda università degli studi di Napoli. Ha scritto numerosi saggi, diversi dei quali dedicati alle violenze sulle donne fra i quali: Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio (Franco Angeli, 2006; nuova edizione, 2011); Uomini che uccidono. Storie, moventi, investigazioni (Centro Scientifico editore, 2008), con Eugenio Ferraro, vice questore della Polizia di Stato; e, col magistrato Fabio Roia, Strategie efficaci per il contrasto ai maltrattamenti e allo stalking. Aspetti giuridici e crimonologici (Franco Angeli, 2011). Anna Baldry ha, fra l’altro, lavorato come consulente delle Nazioni Unite in Afghanistan e Palestina, fa parte dell’associazione “Differenza donna”, impegnata nel contrasto alle violenze di genere.
Annamaria
mercoledì 14 ottobre 2015
LA PUBBLICITA' SOTTO ACCUSA : NUDE E IMPERFETTE PER LUSH
Quattro donne nude di spalle. Questa la campagna pubblicitaria della catena di cosmetic Lush per l’Australia
E' stata definita offensiva e pornografica perchè le quattro modelle non hanno il corpo perfetto mostrando tatuaggi e cellulite.
Le immagini sono state esposte in tutti i negozi fra Australia e Nuova Zelanda e sul sito web della compagnia per promuovere l'utilizzo di prodotti senza confezioni di plastica, nudi appunto come le donne nella fotografia. Questo tipo di nudità non è piaciuta, ad alcuni, e dunque sono arrivate proteste a non finire all’Ufficio che regola le pubblicità in Australia segnalando che le immagini erano all’altezza dei bambini e che violavano i canoni del buon gusto. Addirittura una madre ha scritto:
«Non voglio che I miei figli siano esposti a queste nudità durante le compere settimanali».
Lush ha risposto che la campagna puntava al rispetto per ogni corpo, non certo a creare scalpore. Molti clienti hanno definito la campagna fonte di ispirazione per come promuove positivamente il corpo umano e per il messaggio sulla riduzione della plastica nelle confezioni. «Le donne nelle immagini sono parte del gruppo Lush che hanno creduto nell’idea. Le foto non sono state modificate perché pensiamo che non dovremmmo vergognarci dei nostri corpi come sono al naturale, ognuno di noi è bello nella sua diversità».
Questi corpi non rientrano effettivamente nei canoni estetici della bellezza perfetta, ma sono più vicini alla realtà rispetto a molti commercial che si vedono abitualmente. Ci saranno state altrettante proteste per lo spot pubblicitario di un noto profumo con una notissima attrice che finisce con quasi niente addosso? E sono decine le campagna pubblicitarie che mostrano corpi perfetti, per cui non si ricordano proteste.
A me questa foto non trasmette pornografia ( quella è diversa da un semplice corpo nudo), nemmeno penso si tratti di valorizzazione del corpo femminile. Un corpo obeso al pari di un corpo anoressico è un corpo non in salute. Mi sembra solo una provocazione...e nemmeno troppo originale. Semplicemente ,come al solito, si sfrutta il corpo femminile.
-Fonte Vanity F-
Annamaria
martedì 13 ottobre 2015
TUMORE AL TESTICOLO, +45% CASI IN 30 ANNI. - UN CARTOON PER PREVENIRLO
È il tumore maschile più aggressivo ma anche il più dimenticato, complice il fatto che rappresenta "solo" l'1% delle neoplasie che interessano l'uomo. Il cancro al testicolo, curabile con facilità se diagnosticato in tempo, colpisce fra i 25 e i 49 anni, in piena età riproduttiva, con una frequenza in drammatica crescita, pari al 45% negli ultimi 30 anni. Ma - proprio perché nel 95% dei casi affrontato in tempo - anche con una mortalità in netto calo.
I dati. Questi i dati che verranno presentati a Riccione in occasione dell'88esimo congresso nazionale della Società Italiana di Urologia. Al centro dell'appuntamento, la prevenzione: bastano infatti sei "tocchi" ad hoc attuati fin dall'adolescenza, secondo lo stesso principio con cui si insegna alle ragazze l'autopalpazione al seno, per accorgersi dell'esistenza del tumore.
Tumore al testicolo, un cartoon per prevenirlo
Un cartoon per i ragazzi. Ecco perché al congresso verrà presentato, in esclusiva, un cartoon del 'professor Urosapiens' pensato proprio per insegnare a ragazzi e non solo i "cinque tocchi" da compiere, muovendo le mani nel modo e nel posto giusto. Prodotto dall'agenzia ACME e scaricabile da www.siu.it e www.pianetauomo.eu, il video insegna a effettuare un vero e proprio autoesame, attento e accurato, dei testicoli. Il vero salvavita è infatti l'autopalpazione, pratica nota all'universo femminile, abituato a osservare e tastare il proprio seno tanto da arrivare spesso a scoprire in autonomia noduli in fase iniziale. Mettendo al bando imbarazzi e pudori, con poche mosse e in qualche minuto, anche gli uomini potranno ora individuare il tumore sul nascere, facendo a se stessi, a livello di prevenzione, un doppio regalo, dato che scongiurare il rischio di un tumore al testicolo significa ridurre le probabilità di sviluppo del tumore prostatico.
Duemila casi in Italia. In Italia, nel 2012, sono stati registrati oltre 2mila casi di tumore al testicolo: tra le concause, l'ormai sempre meno diffusa visita di leva, che fino a qualche anno fa rappresentava un importante momento di diagnosi delle patologie del distretto uro-genitale. "Questo tumore - spiega Vincenzo Mirone, segretario senerale della SIU, Società Italiana di Urologia - è la neoplasia più comune tra i giovani e rappresenta il 3-10% delle neoplasie che colpiscono l'apparato urogenitale maschile. E' importante sensibilizzare all'autopalpazione, insegnando a prestare attenzione a qualsiasi modifica possa verificarsi nell'anatomia o nella forma dello scroto e dei testicoli. Adulti e ragazzi dovrebbero conoscere dimensioni e aspetto "normali" dei propri testicoli, così da essere in grado di riconoscere qualunque alterazione. Le nostre regole e il cartoon sono il primo passo per una serie di iniziative sui tumori urogenitali".
Le buone pratiche. Ma quali sono queste buone pratiche? Innanzitutto, affinare il tatto. L'autopalpazione comincia prendendo il testicolo nel palmo delle mani, tenendo presente che le dimensioni potrebbero non essere uguali, ovvero che l'uno potrebbe risultare più grande dell'altro. Poi c'è la fase di esaminazione. Ogni testicolo va studiato facendolo ruotare delicatamente tra pollice e indice, andando a caccia di noduli duri, gonfiori morbidi o tondeggianti, diversa tessitura della superficie testicolare o anomalie che devono essere immediatamente riferiti al medico. La manovra va effettuata una volta al mese ed è bene segnare la data dell'ultimo auto-esame sul calendario. Il momento più indicato per eseguire la palpazione è dopo un bagno caldo, quando il sacco scrotale è rilassato.
Controllare i bambini. "È fondamentale - continua ancora Mirone - che i genitori facciano controllare i bambini dal pediatra di fiducia, perché una correzione dell'eventuale discesa incompleta del testicolo entro il primo anno di vita riduce il rischio di cancro e facilita la diagnosi precoce del tumore. E non solamente quello del testicolo, perché un recente studio condotto dalla Società Americana di Oncologia Medica, presentato nel 2015 al simposio sui tumori urogenitali di Orlando, attesta anche una possibile correlazione con lo sviluppo del tumore prostatico". Se diagnosticato e trattato precocemente, il tumore al testicolo ha un tasso di guarigione del 96% circa. La diagnosi precoce e tempestiva può davvero salvare la vita.
By Antonio- (fonte Repubblica.it)